Caino Royale conclude, al netto delle repliche, la terza giornata di I Teatri del Sacro. Dal buio della scena appaiono due figure stagliate sul nero del fondale: Caino, lancia in mano, si protende sul fratello Abele, indifeso, a terra, nell’attimo che precede il primo omicidio della storia dell’umanità. Ma non ce la fa proprio, Caino: si ferma. Non ha voglia di uccidere il fratello e, alla fine, non capisce nemmeno perché dovrebbe farlo. Fin da subito la coppia innesca un meccanismo comico ben affiatato: alto, magro, spettinato ad arte, Giovanni Longhin è l’allampanato cui il destino riserva di essere il primo assassino; Andrea Bochicchio, sul piedistallo adiacente, è, al contrario, ben “in parte”, insofferente verso l’incertezza del fratello.
Tra una risata e l’altra, emergono due visioni contrapposte della vita: Abele avverte la necessità di quell’atto per avviare un’umanità focalizzata sulla competizione, sulle sopraffazioni, per arrivare al massimo della civiltà, alla giusta punizione. Caino, invece, vive bene, non trova motivo per essere invidioso del fratello e continua a porsi domande. La sua essenza di fool, il suo sguardo pulito e ingenuo sul mondo fanno emergere le storture della nostra civiltà. Il dialogo procede soprattutto per passaggi buffi, intervallato da segmenti esterni in cui si mettono ancor più in evidenza i paradossi e le ingiustizie che riempiono le pagine dei nostri giornali: dal migrante in fondo al mare, genuinamente sorpreso dall’aver finalmente visto un tonno dal vivo, al broker con la vita distrutta da un lavoro spietato, sino ai due celerini pronti a manganellare per mantenere l’ordine.
Con tempi e comicità quasi televisivi, la regia di Rita Pelusio riesce a sviluppare una riflessione sul mito che attraversa il susseguirsi di sketch e momenti musicali alla Cochi e Renato. Chi ha deciso che Caino debba uccidere il fratello? Gli uomini, che avevano bisogno di un alibi a forma di archetipo per giustificare la loro violenza. E se Caino sfuggisse al suo destino? Cambierebbe la storia dell’umanità intera? Dietro l’aria da sempliciotto si cela qualcosa di ben più profondo.
«Con i figli non è facile, bisogna esserci, ma senza esserci», medita, durante le preghiere, un sacerdote al cui personaggio, nel finale, è affidato il compito di tirare le fila della riflessione. E aggiunge, con malizia complice: «E tu in questo sei sempre stato bravissimo». Una velata insinuazione circa la non esistenza di dio che fa da corollario a uno spettacolo coraggioso nel mettere in discussione, pur con la mascheratura comica, alcuni fondamenti della cultura occidentale.
I due attori sul palcoscenico sono puntuali nei tempi comici, nei passaggi tra stili e linguaggi, pure nel trasformarsi da un personaggio all’altro, slittamento caratterizzato da una giostra linguistica non banale — tra accenti dialettali e stranieri — e un semplice oggetto di scena. La prova d’attore diventa quasi sovraumana se si considera la cappa di caldo della piccola e affollata sala del Real Collegio, surriscaldata dai riflettori che mettevano a dura prova anche il pubblico.
Non vorremmo essere nei loro panni, durante la torrida replica di oggi (ore 17).