C’è forse un equivoco, carsico e insidioso, a parlare di narrazione, specialmente a teatro, intendendo un modus operandi comune a vari artisti e che, per ragioni più che legittime, si è imposto a mo’ di canone in seno al panorama italiano: ossia che la forza dei narrattori stia nella capacità di scegliere storie in grado di creare (quando non provare a fondare) nuove, minute, forme di comunità, specie in una realtà sociale polverizzata come l’odierna. Vedendo Per obbedienza, dedicato alla paradossale storia d’un santo popolano e popolare quale Giuseppe Desa da Copertino, il santo che volava, l’equivoco ci pare evidenziato in modo forse ancor più cogente.
La chiesa di San Giovanni è spazio magnifico: il palco al centro del presbiterio non necessita d’arredi, fondali o ulteriori elementi. Basta una sedia: vi siede, con gentile compostezza, Fabrizio Pugliese. Esile, filiforme, dotato d’un carisma potente e raccolto, inizia a parlare: la voce, piana, calda, mai calcata, colma l’intero volume dell’edificio. Dice di quel santo nato in terra salentina, nel sud del sud dei santi, ribattezzato Voccaperta per le estasi che gli socchiudevano le labbra mentre, imbambolato, contemplava le scene di martirio riportate dai quadri agiografici o l’effigie della Vergine («la mamma mia») nel Santuario della Madonna della Grottella. In un Seicento intriso di terra e calore che sembra sbucato da una pagina di Cervantes riletta da Calvino, s’imprime la vicenda picaresca di questo Dom Quijote dell’anima, tanto idiota e lieve da penetrare il mistero, lui malgrado, della divinità sino a librarsi in aria. Il santo di Carmelo Bene, primo a strapparlo alla mera dimensione popolaresca per farne oggetto d’inesaurita indagine, a partire da quel film impossibile che fu Nostra Signora dei Turchi (1968). Storia e leggenda si (con)fondono, come le lingue e gli accenti dei personaggi del monologo, in un protratto gioco di slittamenti tra le pieghe sottili d’un racconto in apparenza semplice, ma che traduce il paradosso d’una diversa e inusitata religiosità.
Giuseppe, la malattia, la vocazione, l’adorazione delle plebi affamate e ignoranti, conquistate dalle facoltà di cui egli stesso si scherniva, tentando di sfuggire a ciò che gli pareva non meritare, non meritarsi. Pugliese, dolcissimo e inesorabile, traduce in suono, prima ancora che concetto, l’oggetto del narrare: la voce procede per cadenze musicali, minuzie modulari senza alcuna necessità d’effetti esteriori. Nei rari crescendo, la chiesa sospende il respiro, come squassata dalla potenza di quest’uomo dal fisico delicato e vigoroso. Sono gli istanti in cui l’attore si erge e lo spazio attorno sembra contrarsi così come, nelle sequenze precedenti, il minimo cenno della mano, lo sguardo in quinta erano bastanti a suggerire movimento, spazio, visione.
Anche in questo caso, probabilmente, l’equivoco si consuma: ché il dispositivo monologico ben architettato da Francesco Niccolini (suo anche Corrispondenze, visto due giorni addietro) ha molto da guadagnare nell’applicazione registica di Fabrizio Saccomanno e, soprattutto, nella magistrale interpretazione, anzi, incarnazione di Pugliese. Corpo, prima che storia, suono, prima che parola, materia, prima che spirito: attore e teatro si coniugano nella dimensione più pura e cristallina, consegnando a un pubblico variegato ma unanime, il dono prezioso di una prova d’indiscutibile valore.