Senza alcun dubbio (o almeno non troppi) La volontà, che chiude la quinta giornata di I Teatri del Sacro, è lo spettacolo più atteso del festival lucchese. Grande nome della scena internazionale, Cèsar Brie [nell’immagine in evidenza] è autore e interprete di questi «frammenti per Simone Weil», presentati in prima assoluta – come è tipico della rassegna in questione – nella chiesa di San Girolamo (che qualcuno azzarda chiamare teatro, ma al massimo possiamo convenire su auditorium).
L’appassionata filosofa francese [nell’immagine in basso] è interpretata da Catia Caramia, mentre l’attore argentino si trasforma, ci pare, ora in narratore, ora in padre, ora in medico: ai suoi cambiamenti di ruolo sono affidati i salti spazio-temporali della narrazione. Oddio, magari Brie è la ragazza che interpreta Simone Weil e Catia Caramia è l’uomo barbuto: non abbiamo controllato, quindi non vi fidate troppo. Si inizia, forse, dall’ospedale di Ashford, in Inghilterra, dove la scrittrice muore vittima della tubercolosi nel 1943. O forse no. Da lì ci pare che i due rivivano le esperienze che hanno costellato la biografia di Simone Weil. La prodigiosa fanciulla, nonostante i costanti problemi di salute, lasciò l’insegnamento per lavorare nei campi, in fabbrica e, successivamente, per combattere al fianco dei repubblicani in Spagna. Però potremmo anche aver capito male.
Probabilmente lo spettacolo si svolge in un ambiente unico, con tre o quattro elementi che sembrano delle brandine e che, tranne una, rimangono inutilizzati: ci sfugge il senso della loro presenza in scena. Il palco è senza quinte, ha un fondale nero in cui è incastonata una grande lavagna , su cui si scrive e si disegna. A un certo punto ci pare di aver pensato che lo spettacolo è persino ben costruito nei suoi tempi, nei passaggi e nell’uso dei pochi elementi scenici. Abbastanza sicuramente al centro della scena sta una carrucola, alla quale i due vengono di tanto in tanto agganciati, benché il senso pare sfuggirci pure in questo caso. Il difetto evidente dell’allestimento è, comunque, la verbosità: si agisce, senza dubbio, ma si parla troppo.
Tutto (tanto) è affidato alla parola e richiede alla sala uno sforzo enorme per seguire quel che succede. Uno sforzo che non si può chiedere al pubblico che sta assistendo al quarto spettacolo della giornata. Al netto di questa pesantezza, lo spettacolo è ben costruito, impreziosito da momenti di grande suggestione: si riconosce la mano del grande teatrante.
Prendetela con le pinze questa recensione, nemmeno chi scrive si fida troppo: all’uscita siamo praticamente i soli a essere, tutto sommato, convinti. Tanto da adombrare un dubbio: il caldo, l’ora tarda, le poltroncine comode, la fatica della quarta visione consecutiva hanno, per qualche istante, fatto calare la palpebra. Vista la discordanza di opinioni con gli altri arlecchini e il pubblico, non escludiamo di aver sognato un altro spettacolo e che questa sia la recensione di un prodotto onirico. Perché se il sonno della ragione genera mostri, il sonno della critica genera spettacoli (quasi) belli.