È il penultimo spettacolo della penultima giornata del festival I Teatri del Sacro: Prego sembra iniziare con una ruffianata. Un po’ imbarazzata, ma molto spontanea, Giovanna Mori sale sul palco e racconta di quando da piccola, diretta a Barga, passava da Lucca con la nonna. Il caso ha voluto che anche in questa occasione abbia alloggiato nello stesso albergo in cui si fermava tanti anni fa e, in un cassetto, abbia ritrovato un biglietto con, scritto a mano, uno stralcio di una canzone in tedesco che la nonna le cantava. Lo appoggia in terra e inizia.
In realtà, questa storia incredibile è, al contempo, parte e riassunto dello spettacolo stesso. La donna che parlava non era Giovanna Mori, ma il personaggio della sua narrazione. Ci introduce in casa sua, descrivendoci quello che noi non vediamo sul palcoscenico sgombro della chiesa di San Giovanni: la cucina, il frigorifero, una poltrona color prugna, una finestra con i vetri sporchi. Inizia una storia dai tratti quotidiani e personali che sembra non servire ad altro che al racconto di sé. Dopo una vicenda abbastanza strana (un vicino di casa che spara a un passante pensando di aver visto un leone scappato da un circo) la trama si fa davvero surreale: una gallina bussa alla finestra per entrare in casa e racconta di essere scappata da un camion in corsa. Ci crediamo, noi ascoltatori già incantati per quella favola domestica dai tratti assurdi: ci crediamo che lei abbia davvero capito cosa volesse dire la gallina Coccolina con i suoi coccodé.
Le due escono e la narrazione diventa frenetica nella sua ricchezza. Incontriamo, in ordine sparso: una donna in cerca d’affetto, una badante che non capisce le domande lette su “La Settimana Enigmistica”, un operaio dei tombini, un uomo che si dichiara poveraccio nella televisione di un negozio di elettronica, la cameriera di una rosticceria, la figlia del poveraccio. Il turbine narrativo non si ferma: basta distrarsi un attimo — impresa non facile, grazie a una Giovanna Mori in ottima forma — e si perde qualsiasi riferimento.
La lingua è sporca e popolare, difficile da inquadrare in una precisa connotazione dialettale. La sintassi è franta: i progetti di frase sono spesso abbandonati e alcune parole sono mozze. Questo procedere a passi incerti riecheggia un altro monologo, quello di Andrea Cosentino (Lourdes, qui la recensione), andato in scena nello stesso spazio la sera precedente. L’effetto, in entrambi i casi, è quello di un racconto spontaneo, genuino e non scritto in precedenza.
Il legame col sacro è felicemente messo ai margini, ma esplode nel finale in cui tutti i personaggi, i luoghi e le cose incontrate durante il racconto prorompono in una collettiva preghiera di ringraziamento. Ci vergognamo un po’ ad ammetterlo (non è questo che cerchiamo nel teatro, anzi), ma quando finisce lo spettacolo ci sentiamo bene, pervasi da una felicità intrisa di quotidiano: come se fosse normale andare in giro a chiacchierare con una gallina.