Via la maschera agli attori: la quarta edizione dei Teatri del Sacro si conclude così, con un richiamo alla realtà non meno che alla civiltà, un’incitazione al risveglio su temi che la cronaca rende di giorno in giorno più scottanti. A render densa la performance, esito laboratoriale il cui marcato valore sociale pare ineluttabilmente adombrare quello artistico, sono soprattutto i suoi interpreti, un folto gruppo di immigrati nigeriani richiedenti asilo e accolti a Lucca a dal Gruppo Volontari Accoglienza Immigrati della Caritas. Bei visi, corpi possenti, eppure esseri dalla palpabile fragilità: giovani uomini come tanti, con un passato di sofferenza, un presente di emarginazione e quotidiana lotta, un futuro da costruire a suon di (legittime) rivendicazioni che, si spera, qualcuno tra i potenti, prima o poi, si degni di ascoltare.
A ritrovar le storie il titolo dello spettacolo, frutto di un laboratorio durato quattro giorni e che ha convogliato il contributo dei partecipanti all’interno di una struttura preesistente elaborata a partire dal libro omonimo delle stesse Monica Morini e Annamaria Gozzi, entrambe componenti e autrici della compagnia Teatro dell’Orsa, che da anni mette la propria arte al servizio di un forte impegno civile. Il meccanismo del gioco dell’oca, nel libro, diviene spunto per raccontare storie; in scena, queste si incarnano in frammenti di ricordi, di desideri, di paure, che nelle voci degli interpreti dischiudono al pubblico piccole ma significative finestre su vite che acquisiscono d’improvviso tratti familiari.
Quelle offerte al pubblico sono innocue memorie di infanzia, ma anche brandelli di un passato recente e ben più angosciante, in cui si mescolano immagini di morte, di fuga, di traversate per mare. Il tema della perdita è centrale, introdotto con notevole abilità affabulatoria dalla brava Morini che, oltre a tener le briglie dello spettacolo (assistita dal collega attore/autore/regista Bernardino Bonzani) e spronare, quando necessario, i più timidi, narra per intero una cupa fiaba tradizionale tedesca (raccolta dai fratelli Grimm con il titolo Der Gevatter Tod, tradotto in italiano con Comare Morte), la cui morale «la Morte non si inganna» sembra ammonire gli astanti.
Momento clou è l’estenuante corsa del gruppo in direzione del pubblico, metafora di vita e, irrimediabilmente, anche della sua fine: i corpi sudano, si affannano, disperatamente resistono; c’è chi conclude il calvario prima degli altri gettandosi a terra, e alla fine di questo lungo e tormentato viaggio la schiera è dimezzata, avanza fra i cadaveri. Spontanei gli applausi di fronte alla tanta energia messa in gioco, perché qui non si recita, si è se stessi; ciascuno si è presentato con il proprio nome, mostrandosi al pubblico in tutta la fragilità della propria condizione.
Una conclusione in positivo concede infine a pubblico e performer di sciogliere la tensione attraverso un ritmo liberatorio, con canti e danze che, nella loro genuinità, infondono allegria e instillano la speranza, almeno per i giovani che a questa esperienza si sono prestati e per coloro che vi hanno assistito dalla navata centrale della chiesa di San Giovanni.
Momenti di scambio e condivisione da incoraggiare in ogni caso, finanche se in una forma dai contorni traballanti. Degna conclusione di un festival dedicato ai temi del sacro: in fondo, cosa c’è di più sacro di questo?