Una domenica, una casa qualsiasi, delle persone qualsiasi.
Le vicende dell’Ultima Cena, della Passione e della Resurrezione del Cristo rivivono, raccontate da nove attori, sette uomini e due donne: ognuno di essi rappresenta un personaggio, dai più noti Giuda e Pietro, al tendenzialmente mai citato carnefice di Gesù.
Gli interpreti, dapprima seduti in platea, salgono sul palco, disponendosi intorno a un tavolo bianco (unico elemento scenografico), producendo un indistinto vociare; improvvisamente, uno di loro narra cosa ha visto negli ultimi giorni di Gesù. Quindi si azzittisce, si siede. Un altro si alza e parla. E poi un altro, e un altro ancora. Quando ogni attore ha parlato almeno una volta, le vicende sono esaurite, lo spettacolo termina.
Come si può immaginare da quanto descritto, la rappresentazione è, purtroppo, caratterizzata da una certa ridondanza, una coazione a ripetere che ci pare non giovi molto né al disegno generale né alla fluidità. La narrazione frammentata in nove parti, che ogni volta termina e ricomincia, finisce per risultare ripetitiva, stancante il pubblico.
L’unico elemento che avrebbe potuto giocare a favore è, probabilmente, il testo (traduzione scenica di Menù di Quaresima di Don Vittorio Chiari), ma anche da questo punto di vista l’obiettivo sembrerebbe mancato: la riscrittura scenica, infatti, non sembra contienere elementi peculiari, particolarmente interessanti, fosse pure uno scarto sorprendente, proponendo la vicenda evangelica ben nota, senza “rischiararla” di una qualche luce innovativa.
La riflessione su Giuda, che poteva costituire l’elemento di novità , viene solo adombrata, per poi mancare, a causa della narrazione parcellizzata in nove parti non dialoganti fra loro.