L’inferno coniugale: costrizione violenta, trappola mortale in cerca del punto di fuga. Giostra di menzogne, recriminazioni, nel malmostoso ristagno di rimpianti senza costrutto, in cui s’addossa all’altro le colpe che non s’ha l’onestà d’imputare a sé stessi. Quando, quasi per caso, un elemento altera il malato e grigio equilibrio dell’abitudine, ecco dischiudersi i drappeggi del teatro: non la scena in senso materiale, quella dei comici con palco, platea e palchetti, ma quella mentale, in cui ha luogo la rappresentazione, sempre mendace, di quel che siamo o vorremmo far apparire.
È in questo incastro che Luca Ronconi precipita l’asciutta riscrittura offerta da Roberto Alonge dello strindberghiano Dödsdansen: due drammi distinti, in origine, non del tutto combacianti, qui unificati col titolo Danza macabra. Solo tre personaggi: la coppia cattiva (nell’accezione di livorosa e prigioniera) formata dal capitano d’artiglieria Edgar (Giorgio Ferrara) e Alice (Adriana Asti), ex attricetta mai giunta al successo, cui va a sommarsi il terzo incomodo, Kurt (Giovanni Crippa), di lei cugino e ufficiale di quarantena, ai tempi responsabile della sciagurata unione.
Un ampio spazio angusto inquadra la coppia ormai oltre la soglia della sfioritura: domina la parete in verde scuro, sporco e ruvido, materialità rugosa che pare il riflesso delle incrostazioni trascinate dai due. Ingombranti suppellettili appesantiscono l’ambiente, enfatizzandone la cristallizzazione asfittica: un giaciglio di metallo, una larga poltrona scura, una telescrivente a nastro, troneggiante al centro, per battere, di tanto in tanto, messaggi in ricezione. L’uggia ambientale è ben riflessa nella recitazione sapientemente carcata e sulfuera di Alice: gesti spezzati, corvini e dissonanti, come i suoni a punteggiare i momenti salienti del dramma. Le si contrappone un Ferrara farsesco, meno centrato, in scollacciata ricerca del riso in platea che, va detto, arriva puntuale quando l’attore la mette sul comico.
Questa la chiave ronconiana: trascinare Strindbergh più dalle parti di certo absurdismo transalpino rispetto alla più consueta collocazione nordeuropea. In effetti, l’andamento della recita fa pensare a Finale di partita o a quel Giorni felici che, regia di Bob Wilson, aprì proprio con Adriana Asti la stagione pratese 2009/10. Crippa rende un Kurt più sottile, vittima delle insidie cui lo sottopone la cugina, ma carnefice, come i compagni, quando s’avventa all’altrui collo nei bizzarri e plateali segmenti vampireschi inclusi nel testo originale. Vampirismo e cannibalismo permeano l’intera pièce, nelle mutue accuse che i personaggi si lanciano, alla disperante cerca di uno straccio di senso per i reciproci fallimenti.
Tanto rumore per poco, vien da dire: a fronte d’una grande potenza visiva e sonora, sfugge l’efficacia del disegno, irrisolto nella vigorosa prova di mezzi (compreso l’improvviso fluttuar degli arredi, come a bordo d’una nave) senza, però, sortire un reale effetto. La Danza macabra menata da Ronconi è un oggetto estetizzante: può interessare l’occhio d’uno spettatore smaliziato (come La modestia, tre stagioni fa), ma resta isolato dal cuore e dal “sangue” dello spettatore, quando invece avrebbe il dovere di colpire, e con forza. Un teatro che lascia il pubblico immutato ci pare, non ce ne vogliano gli artisti, pregevoli, non tanto uno spreco (il che potrebbe pure essere un merito), ma un’occasione perduta o poco più.