Il carcere di Sollicciano, a Firenze, apre i cancelli per due sere in cui un gruppo di detenuti presenta il suo spettacolo, frutto di un laboratorio teatrale organizzato dall’Associazione Krill Teatro. Quest’anno va in scena una riscrittura di Ubu Re, testo capitale del teatro contemporaneo scritto – si dice sui banchi di scuola – da un giovanissimo Alfred Jarry.
Uno spettacolo non è mai svincolato dal contesto in cui va in scena, tanto di più in questo caso: vale la pena spendere due parole per conoscere la situazione. Sollicciano non è un carcere facile: ci sono soprattutto detenuti in attesa di giudizio, che in Italia rappresentano un terzo della popolazione carceraria (di cui, è bene sottolinearlo, gran parte saranno assolti). Qui il tasso di sovraffollamento è al di sopra della media nazionale (circa 700 detenuti a fronte di 494 posti letto) e la particolare struttura architettonica, pare ispirata al giglio fiorentino, sembra fatta apposta per essere perennemente esposta al sole. Risultato: la percentuale di decessi più alta in Italia (proprio a ridosso del debutto dello spettacolo c’è stato l’ottava morte dall’inizio dell’anno), innumerevoli aggressioni agli agenti di polizia e una situazione di tensione continua.
Il manipolo di detenuti-attori entra con allegria nel grigio del Teatro del carcere, cantando una canzone sulla storia di Ubu, guidato da un muscolosissimo chitarrista. Si capisce subito che il tono della messincena è quello della riscrittura in chiave personale, trasponendo nello spettacolo la propria esperienza di vita (e di detenzione). A tratti i detenuti si inseriscono nella storia con le loro riflessioni: in particolare – neanche a dirlo – sul tema del tradimento, ma anche sull’omertà del Capitano Bordure che non vede, non sente e non parla. La scenografia – realizzata da un gruppo di studenti del Liceo Artistico di Porta Romana di Firenze – crea continuità tra la scena e l’ambiente: le colonne di cemento armato ricreano l’atmosfera del carcere. Il teatro non è un momento di evasione da un contesto difficile, ma una vera e propria riflessione sulla propria condizione.
Attorno alla madre Ubu interpretata da Ilaria Danti, attrice professionista, si muove uno sciame di detenuti in cui nessuno interpreta un ruolo particolare. A interpretare il protagonista, per esempio, diversi attori si alternano a un grande volto di latta. In questo vortice di facce, nazionalità e accenti diversi, si svolge un gioco continuo dentro e fuori la metateatralità, con continui riferimenti alla situazione di reclusione.
Ciò che emerge da questa riscrittura di Ubu non è tanto l’originalità dell’operazione, quanto la sua urgenza. In questo caso il confronto con la letteratura è vivo e sentito, non è un’operazione fatta a tavolino pensando a cosa il pubblico può apprezzare. È evidente la necessità di essere in scena che spinge i detenuti-attori: è la chiave che allontana la messinscena dal semplice risultato di un laboratorio o da una recita amatoriale.