Se la riflessione sulla vita causa l’inevitabile riflessione sulla morte, l’analisi di un rapporto non può che iniziare dalle fratture che ne intaccano la superficie. È infatti di vita e di morte, di amore e di odio rabbioso che parla Matrimonio segreto (prima nazionale), messo in scena dal gruppo Gogmagog su testo di Virginio Liberti.
La riflessione si tiene su due piani interpretativi paralleli o sovrapposti: morte o follia? L’azione (in forma dialogica) si svolge, infatti, a seguito della presunta morte di lei, che, sparita un’istante, ricompare affermando di essere deceduta per tumore ai polmoni; ma il dialogo, paradossale, ironico, non chiarisce mai l’effettivo decesso.
Non siamo riusciti a cogliere il significato del titolo, certo il matrimonio rappresenta la relazione tra i due personaggi recitanti, ma a cosa rimanda la segretezza? Esclusa la possibile relazione con Cimarosa, rimaniamo nel dubbio, osservando il tutto dalle gradinate.
La scenografia è composta da una mostra fotografica, o forse si tratta di quadri? In ogni caso, le opere di Graziano Staino rimandano a sofferenza e forse morte, inquietudine.
Lui (Carlo Salvador) parla, lei (Rossana Gay) ripete le ultime parole, lui tenta ancora di trovare un dialogo, lei rimane distante: le prime battute paiono un ribaltamento della vicenda di Narciso ed Eco, in cui la ninfa non sia affatto presa da passione travolgente bensì utilizzi la voce per allontanare l’amato. La morte è affrontata con ironia, l’intera vicenda è venata di un umorismo ricercato, in un modo che, talvolta, ci pare eccessivo; o, forse, eccessiva è la pretesa di una riflessione tragica a fronte di una situazione paradossale come quella proposta.
Paradossale è la morte presunta, il fatto che i due attendano che si liberi un posto nelle schiere celesti in modo che l’anima di lei ascenda, cessando di tormentare con il proprio nervosismo un marito troppo distratto.
Ma torniamo alla presunta riflessione dai tratti tragici: seppur troviamo naturale che la comicità si leghi ad aspetti dolorosi dell’esistenza, riteniamo che il dolore sia connesso al comico, e non necessiti di essere esplicitato, imponendo una riflessione cosciente.
Perciò ci è parso leggermente dissonante che i toni, sempre leggeri, si siano scuriti violentemente nel momento in cui si tratta la (mancata) maternità: l’aborto diviene l’incrinatura della relazione, considerazione interessante, ma che ci è parsa quasi banale nella sua espressione tragica.
Si narra dunque la sofferenza di una non-madre il cui sogno di maternità si rivela illusione, l’incomunicabilità figlia del dolore, o forse della follia che ne consegue. Si rimane sospesi sul filo che separa vita e morte, con dialoghi surreali, talvolta quasi insensati, concatenati l’uno all’altro grazie ad anelli di fragile inconsapevolezza. Arriva un momento in cui la narrazione, sempre uguale a sé stessa (il che non è obbligatoriamente un difetto, dal momento che evidenzia una lodevole coerenza linguistica), pare variare: lei è stesa su una panca, lui la guarda, e per un istante l’immagine ricorda quella della dostoevskijana “mite”, che sia davvero morta? Che il dialogo tra i due sia soltanto un’allucinazione, figlia anch’essa di un dolore indicibile?
Ma la scena riprende, i dialoghi tornano a tessere la trama relazionale, e l’equivoco resta insoluto.