È Le mille e una notte la nuova produzione che il Teatro del Carretto ci propone a un anno dal debutto di Iliade. Ci sorprende, come al solito, la compagnia lucchese guidata da Maria Grazia Cipriani e Graziano Gregori: se un anno fa ci siamo trovati di fronte a una costruzione scenica mastodontica, affollata e disumanizzata, stavolta assistiamo a uno spettacolo di dimensioni contenute, molto recitato e profondamente umano.
Umano, perché al centro del percorso drammaturgico creato da Cipriani c’è sempre il corpo di Elsa Bossi, prototipo della donna vittima di una violenza che assume molteplici volti. La protagonista è Sherazade, vittima designata che, per evitare di essere uccisa come le altre mogli del Re di Persia Shahriyar, inizia a intrattenerlo raccontando storie con cui, paradossalmente, ricade in quella condizione di vittima da cui cercava di fuggire.
Dall’Orlando furioso al mito di Apollo e Dafne, da Otello ad Amleto, la drammaturgia di Maria Grazia Cipriani spazia nel suo tipico orizzonte di riferimenti: Shakespeare, la favola e il mito. I volti della violenza sono messi in scena da Nicolò Belliti, re di Persia in prima battuta, ma anche Teseo, Narciso, Amore: ascoltatore attento delle favole di Sherazade, ne è anche interprete entusiasta. Fisico statuario e sguardo potente, ci mostra un ampio ventaglio di forme di oppressione dell’uomo sulla donna: ora strozza Desdemona, ora fa impazzire Ofelia; respinge violentemente Eco o punta la pistola alla tempia della stessa Sherazade.
Tra questi due poli della violenza si muove Giacomo Vezzani, sorta di Leporello di un mostruoso Don Giovanni. Il suo ruolo trasversale ci fa pensare a un Arlecchino servo di tre padroni. Del pubblico, innanzitutto, poiché narratore incipitario dell’opera; serve effettivamente il re assassino a cui, in livrea e papillon, asciuga la fronte e di cui è complice; ed è infine servo della storia stessa, calandosi nei personaggi terzi come il Minotauro o il pastore Medoro.
Si percepisce l’urgenza della regista nell’affrontare il tema delle violenze specifiche a cui solo le donne vengono sottoposte. Proprio questa urgenza, a nostro avviso, la conduce su una falsa pista. Nell’ultima parte dello spettacolo abbandona il terreno della letteratura, per spostarsi su quello della cronaca. Lascia la strada delle suggestioni e delle storie per imboccare quella dei numeri e dei fatti. Ci dice quante donne sono state violentate/torturate/uccise in un certo conflitto o presta la voce della protagonista a raccontare casi reali di vittime. Così facendo, però, dà ragione a chi pensa che la letteratura, l’arte e l’emozione, su questi temi, manchino di concretezza. Non è così: cosa c’è di più concreto di quello che proviamo nel vedere il corpo femminile costantemente maltrattato in scena? O dei brividi che – complice la parte sonora tagliente e potente – proviamo nel resto dello spettacolo?
Il Teatro del Carretto ha sviluppato un linguaggio e uno stile che gli sono propri, pur non ripetendosi mai. Ogni spettacolo è «un fiore diverso nel nostro cestino, perché andare in un bosco e raccogliere tutti fiori uguali è noioso», come spiegano i due fondatori della compagnia. Però stavolta la ricerca li ha portati, per un breve tratto, fuori da quel bosco incantato di cui sono padroni per finire nel deserto arido della cronaca.