Non qui, non ora. Il contrario del teatro, appunto, e al contempo la sua intima petizione statutaria di luogo liminare in cui vedere le cose che sono nascoste. Ha del donchisciottesco (sia agli atti: è un massimo apprezzamento) l’attacco che Andrea Cosentino, originalissimo e squinternato assolista abruzzese più volte (e sempre per errore) avvicinato ai narrattori coi quali poco o punto ha mai spartito, sferra all’indirizzo della ben più celebre e celebrata performer, Marina Abramović e del suo Metodo. Lo fa con l’arma d’una sapidissima ironia, e un costrutto solo in apparenza precario e malsicuro: due schermi sul fondale, via via attraversati da sequenze in cui l’attautore − naso e parrucca posticci − parodizza l’artista slava, uno spazio sgombro e una serie di personaggi cicaleggianti, dalla maschera di sé (simil-neutra, verrebbe da dire) all’occhialuto esegeta sino a vernacolari macchiette parentali, il tutto filtrato da ovvie rifrazioni umoristiche.
Ne emerge un carnevale di segni tutt’altro che scontato o semplicistico, d’orditura pure raffinata: non è con Abramović in sé che se la prende Cosentino, ma col suo -ismo, l’intero e capzioso sistema di rappresentazione/divulgazione dell’arte oramai incarnatasi nel marchio, meccanismo al quale la (fu) meritevolissima ed estrema performer vede bene di non sottrarsi. Come a dire: l’arte (e gli artisti) dopo la morte dell’arte. Ha il pregio di non sdottoreggiare né buttarla sul cattedratico (non sarebbe nelle sue corde): anzi, la regressione comica lo spinge a una feroce forzatura riduzionista, arsenale consueto di qualsiasi umorismo da fool. I dardi incoccati centrano le contraddizioni di un’arte che si pretende ieratica, dedita ai misticheggianti concetti di esperienza, ma che esige sbigliettamenti massivi, col corredo comportato da una société du spectacle che si rispetti, divizzazione inclusa.
Specificare che nell’introdurre la celebre installazione interattiva The Artist Is Present (data al PAC di Milano nel 2012), dicendo «se qualcuno mi affiderà il suo tempo, io lo trasformerò in esperienza», la performer slava avrebbe dovuto aggiungere tra i primi termini della transazione «e 15€» sarà forse prosaico, ma non per questo meno lepido o lapalissiano. E ribadire che col denaro, un tempo sterco demoniaco, certa arte contemporanea alimenti un equivoco tra il pericoloso e l’imbarazzante è altrettanto evidente, senza necessità di rovesciar Artaud, Marx o Freud (ma a Sigmund i soldi garbavano eccome: mettiamoci Schechner) sul pubbico per averne diritto.
La performance (di Cosentino) è pregevole ed efficace, al di là di qualche lungaggine intermedia (ma ritmo e ricezione variano di sera in sera), e il porsi sempre ben al di sotto sia del bersaglio sia dello spettatore, da parte dell’artista, è una piccola perla (est)etica. Ironico che le critiche piovute su Not Here, Not Now faccian leva sul presunto semplicismo: sarebbe interessante saper che pensano, gli autori delle medesime, circa la celebre dichiarazione «Theatre is very simple: in theatre a knife is fake and the blood is ketchup. In performance art a knife is a knife and blood is blood» resa dalla divina Marina. C’è chi può e chi non può. Da arlecchini, applaudiamo Cosentino e avanti così.