Intervista a Roberto Castello, in occasione della rassegna “Last but not least”, Porcari, dicembre 2016.
Igor Vazzaz e Andrea Balestri incontrano Roberto Castello a margine di Requiem for Pinocchio, primo appuntamento scenico della rassegna Last but not least, la sera del 20 dicembre: l’occasione è ottima per qualche considerazione sia sul momento di SPAM! e Aldes, le “creature” del coreografo torinese, sia sulla situazione di Lucca a proposito degli spazi scenici disponibili.
La rassegna è stata presentata il 18 dicembre e prevede sei appuntamenti di qui alla fine dell’anno: perché è stato tutto così repentino?
Noi lavoriamo con fondi regionali e l’assegnazione dei contributi per il triennio 2016-2018 è avvenuta molto tardi. Avevamo un altro piano – diverso per luoghi, tempi e modalità – che non ci è sembrato prudente portare a termine in mancanza di certezze economiche. Abbiamo gettato la spugna e, ovviamente, pochi giorni dopo sono arrivate le risposte, ma stavamo tenendo in sospeso le compagnie (anche internazionali) e ci siamo resi conto che non aveva più senso. Poi c’è stato il debutto di ALFA, la nuova creazione (qui la recensione), e la tournée che ha occupato me e i tecnici fino a sabato 17.
Perché Last but not least?
Questa rassegna è stata ricalibrata su SPAM!, uno spazio che, per quanto bello e accogliente, spero di utilizzare l’ultima volta per la programmazione: resterà attivo per le residenze, ma perché sia adatto al pubblico servirebbe un investimento che noi non siamo in grado di fare. Questa rassegna è una festa d’addio all’apertura al pubblico della nostra sede, perché la prospettiva è quella di spostare la programmazione a Lucca dal 2017.
Quali sono le particolarità di questa rassegna?
Ho un ottimo sentore nel Live dance club, il primo prodotto della collaborazione con Barga Jazz. Ci tengo molto che questo triennio sia caratterizzato dal rapporto col ballo, perché penso abbia un valore politico. Cito una frase abbastanza conosciuta, spesso attribuita, forse poco accuratamente, a Emma Goldman: “If I can’t dance to it, it’s not my revolution”, “Se non posso ballarla non è la mia rivoluzione”. È un’idea che contempla la dimensione del piacere e della libertà come indispensabile per qualsiasi rivoluzione. Quindi verranno dei jazzisti che improvvisano e fanno ballare le persone: tengo molto a questa componente, che spero inneschi dinamiche nuove tra le persone che vengono.
In base a quali criteri hai messo insieme le cinque serate da qui al 30 dicembre?
Avendo ogni sera un appuntamento con la musica live, ho cercato di scegliere spettacoli combinando l’area teatrale e la danza. Si inizia con Requiem for Pinocchio di Simone Perinelli, un giovane attore che incarna il modo di fare teatro che avevo in mente: un approccio molto centrato sulla dimensione dell’attore, sul dare carne al gioco. Giovedì 22 c’è una serata un po’ bolognese, con Stefano Questorio, che lavora con noi da tanti anni e ci porta Album, che qui aveva avuto un’anteprima e adesso ci porta la versione definitiva; nella stessa sera ci sarà Prometeo: Il dono di Simona Bertozzi, con le musiche di Francesco Giomi, che scrive musica elettronica e viene dal filone derivante da Luciano Berio. Uno spettacolo di danza molto cinetico, con elementi molto toccanti, che crea un contrasto con il lavoro di Stefano, poetico, plastico e performativo. La settimana successiva si apre lunedì 26, una serata che inizia con Carnet erotico, il lavoro (ancora in gestazione) della nostra Francesca Zaccaria: io l’ho visto nascere, a brandelli, e anche per me sarà una scoperta, ma trovo Francesca una grande interprete capace di essere tante cose diverse. L’ho molto spinta a fare questo lavoro, perché comincia ad avere la testa e la maturità per fare delle cose interessanti. È pittrice, cintura nera di aikidō, praticante di yoga: ha un rapporto molto profondo con la fisicità, e questo è il suo approccio all’erotismo, non in termini di seduzione. Dopo di lei troviamo Fabio Ciccalé, il coreografo che più amo: fa quello che ha voglia di fare senza badare a quello che pensano gli altri, con un rigore, un metodo e da così tanti anni che merita uno sguardo attento, oltre la superficie apparentemente fredda, sotto la quale trovo molto di tragico.
Mercoledì 28 abbiamo Dario Marconcini e Giovanna Daddi con Minimacbeth, quello che i due reputano il loro testamento artistico di cui, paradossalmente, non hanno foto e video: cercheremo di regalargli una testimonianza del loro lavoro, sperando di farlo in modo conforme. Venerdì 30 chiudiamo con Quintetto, un lavoro la cui bellezza sta nel fatto che non se ne sa nulla: io l’ho visto a Birmingham e come dispositivo non è niente di originalissimo, ma è gestito con un garbo, una gentilezza e un rispetto che mi hanno sorpreso. È un enorme casino gestito con una notevole eleganza e innesca una dinamica con il pubblico che mi sembra perfetta per chiudere l’anno e arrivare al concerto di Emma Morton.
Quali sono le prospettive su Lucca per il prossimo anno?
L’auspicio (e parlo di auspicio perché c’è un problema di fondi da risolvere) è quello di trasformare l’Ex Cavallerizza in un luogo adatto a una rotazione di funzioni. A fianco di Photolux, Cartasia, Comics e quant’altro, il Comune ha piacere che si possano ospitare spettacoli. Si è ragionato su quali potrebbero essere le strutture mobili di cui il Comune si potrebbe dotare per accogliere un pubblico di 250-350 persone, permettendo a tutti di vedere e sentire. Ci sarà un periodo di quattro settimane, sul finire dell’estate, in cui la Cavallerizza sarà allestita per essere una sala teatrale. Sarà un palco metricamente più ampio e arioso di quello del Giglio, su cui si possono invitare anche compagnie internazionali. Ne verrebbe fuori un bello spazio per aprire una porta verso l’estero, anche per evitare quell’autoreferenzialità comune a molto teatro italiano, costantemente ripiegato su sé stesso. Poi c’è una volontà condivisa tra noi e il Comune di fare una piccola rassegna di “appuntamenti da camera” nelle cannoniere delle Mura, che trovo dei posti strepitosi. Questo progetto, però, si scontra con problemi legati alla sicurezza, ai permessi e, anche in questo caso, ai fondi.
Altre idee?
Domenica, alla presentazione di Last but not least all’Ex Cavallerizza, abbiamo notato un riverbero acustico di una dozzina di secondi. Una roba da cattedrale gotica, che è un handicap tremendo per uno spazio dove fare spettacolo. Abbiamo messo il pubblico tutto da una parte con cinquanta metri di vuoto davanti e abbiamo giocato con questo riverbero. Sto accarezzando l’idea di invitare dei musicisti per una piccola rassegna di improvvisazione su questa specificità del luogo, prima dei lavori di correzione acustica. Ne ho già parlato con Alvin Curran e mi sembra molto tentato da un lavoro con un pianoforte gran coda e le sue conchiglie. Un’altra idea (ne ho parlato con quelli del Pecci) sarebbe quella di fare delle monografiche retroattive sugli animatori della scena dell’avanguardia romana degli anni Settanta, di cui non è stata costruita una memoria. Ci sono degli archivi sterminati: Simone Carella ha ripreso tutto al Beat ’72 e l’idea era nata proprio parlando con lui, che però ci ha fregati andandosene prima del tempo.
Come si coniugano queste iniziative, sempre concentrate in brevi periodi, con il desiderio della Regione di una programmazione più costante nell’arco dell’anno?
La continuità della nostra azione è garantita dalle residenze, ma per la programmazione al pubblico ci vorrebbe uno spazio teatrale dove ospitarla. Credo che sia comunque nell’interesse di tutti se smuoviamo il pubblico lucchese sul contemporaneo, anche se in periodi limitati. Il mio sogno, l’ho detto tante volte, è che a Lucca venga costruito uno spazio nuovo. Basterebbe un piccolo investimento per dare alla città un enorme vantaggio durevole nel tempo, con la capacità di imbastire delle dinamiche di rete che adesso sono inimmaginabili: Lucca potrebbe diventare il polo di un network europeo, non solo in termini di spettacoli proposti, ma anche di relazioni. In un bacino di abitanti di centocinquantamila abitanti, ha senso che ci sia solo il Teatro del Giglio, con tutte le limitazioni anche fisiche che ha? Significa anche caricarlo di una serie di funzioni che non lo riguardano: è irrazionale dal punto di vista dell’economia complessiva. Che senso ha, per esempio, che le scuole di danza siano costrette ad andare al Giglio (magari ogni tre anni, perché non hanno i soldi) per i saggi? Significa abbassare l’attività del Giglio a quello che dovrebbe fare un teatro privato, togliendo autorevolezza alla programmazione vera. Dovremmo fare meno cose e meglio, anche per concentrare gli sforzi e dare più valore a quello che si fa.