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39038 De Summa Black Hole Sun

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De Summa Black Hole Sun

La precarietà (sia chiaro: non ci stiamo lamentando) è uno dei segni del contemporaneo, a teatro come altrove: non solo gli spettacoli si reggono, realizzano, progettano sulla base di equilibri instabili quanto volitivi (si veda il caso recentissimo, e triste, di Orizzonti Festival e quel che n’è conseguito), ma anche la critica, atto sempre e comunque derivato rispetto alla prova scenica, si dibatte in un sistema di fragili equilibri, di tempo e spazio. La presente supercazzola (che tanto supercazzola non è) ci offre l’occasione di ragionare a tempo indebito d’un pregevole spettacolo andato in scena oltre due mesi fa, testo e regia di Oscar De Summa, artista d’innegabile vaglia, cui pure questi schermi hanno riservato critiche più o meno sferzanti.

Lo avevamo lasciato a Firenze, assiso su un trono parsoci malfermo, lo ritroviamo poco distante, a Prato, nel cubo avoriato del Fabbrichino, per La cerimonia. Solo in apparenza, il confronto col classico sembra cadere, ché nel contemporaneissimo dramma a quattro ordito all’uopo, l’echeggiare del mito edipico è sciente malizia, a partire da nomi e ribaltamenti di sorta: c’è Edi (Marina Occhionero), adolescente preda d’un disperato e accidioso cinismo, l’annichilita coppia d’inetti genitori (Vanessa KornMarco Manfredi, Giò e Laio), il fool veggente (De Summa medesimo), un Tiresia versione zio irregolare ma avvedutissimo, mentore perfetto per la fanciulla aspirante hikikomori (pratica di autoisolamento sociale che, dal Giappone degli anni Ottanta, si è diffusa in altre parti del mondo).

La partitura procede per quadri e strappi, in un ventaglio che abbraccia ulteriori soluzioni brechtiane (lo schermo sullo sfondo a proiettare, sottolineandole, alcune porzioni di testo) e una paradossale ambientazione metafisica, con il tavolo al quale seggono i protagonisti, senza altri oggetti circostanti. Atmosfera di tesa sfibratura, resa sanguinante da una selezione musicale che rimbalza in scena massicce porzioni di rock anni Novanta. Edi anela il vuoto, sempre meglio degli slogan propinatigli da una madre in disarmo, un padre in procinto di cambiar vita e sesso, per un’autentica fiera della vanità, nell’etimo di vano come mancante, mancato, privo di sostanza. 

Tiresia/Tigre/De Summa, non senza didascalismi, distribuisce sapida controsaggezza in pillole: parla di male necessario, di vita, di provare a lasciar questo mondo migliore di come lo si sia trovato. Tutto si sfarina: i legami, gli affetti, il matrimonio, il senso del dovere d’una ragazza che annuncia a quelle figurine capitatele in sorte a mo’ di genitori (in tal senso, l’ostentata stilizzazione recitativa ha il suo perché) l’abbandono scolastico. Tutto implode, nella pastoia limacciosa della famiglia, in una fusione che odora d’idrocarburi, come la plastica disciolta di questi anni. Ed è curioso che il pensiero sia, durante la visione dello spettacolo, andato alle grida di Chris Cornell, scomparso nel lasso di tempo intercorso con la scrittura di queste righe. Tutto implode, benché, proprio nel punto di fusione, in quella Cena di Fine millenio allestita dall’inquieta Edi, De Summa riesca comunque a inserire un lacerto di stranita speranza.

Storia nera, La cerimonia congiunge con sapienza scenica mito tragico e impossibilità di questo, concrezione dolente tra la Tebe antica e un contemporaneo ben imbevuto di quegli anni Novanta che punteggiano (pure troppo, purtroppo) certi sguardi sul nostro (presunto) quotidiano odierno. 
Applausi, però, per un De Summa che torna a “far male”, con efficacia teatrale. Non è poco, anzi.