Tutti gli spettacoli meriterebbero un manifesto – un’affiche, per fare i raffinati – che, pur rimanendo fisso, incollato a un pannello in doppia o quadrupla copia, riesca ad eccitare la fantasia del passante affaccendato, a incuriosire l’automobilista inchiodato al semaforo, a sorprendere il passeggero distratto sul filobus.
Non tutti ne hanno uno, ahimè, e gli spettacoli che hanno la fortuna d’essere reclamizzati per via di affissioni pubblicitarie ne hanno forse più svantaggi che benefici.
Io, che sono Arlecchino, sono vagabondo per natura. E quando passeggio, ciondolando tra le vie che si svuotano all’imbrunire, mi fermo a guardare i manifesti dei teatri. E giudico.
Se non fossi l’Arlecchino che sono, pigro, fannullone e infingardo, cercherei di dare a questa rubrica taglio scientifico, oppure storico. Ah sì, quante ne avrai da dire.
Spiegherei, per esempi e teorie, quali sono gli aspetti essenziali di un allestimento iconico-verbale; illustrerei gli artifici compositivi che concorrono all’organizzazione percettiva e si aggregano nella trasmissione corretta di un messaggio; mi soffermerei sul carattere espressivo delle forme grafiche, partendo dall’orientamento delle linee e arrivando alle strutture stereotipiche più complesse; analizzerei il portato cognitivo che proviene dalla fusione tra geometria e colore; elencherei le sei leggi individuate dai gestaltisti, sfiorerei la teoria dell’ornatus e infine affronterei le questioni delicate che legano strategia della semiosi e semiotica della strategia pubblicitaria.
Sicché, una volta discussi questi punti, uno per volta e approfonditamente, mi sarebbe più facile far capire che cosa differenzia i due manifesti che qui vi propongo, curiosamente affissi a poca distanza l’uno dall’altro e dunque suscettibili (ahinoi, ahiloro) d’un confronto diretto.
Il primo, potente e semplicissimo, ci riporta alla cartellonistica degli anni Venti dello scorso secolo: l’insuperabile matrimonio cromatico tra rosso e nero, il lettering cubitale con ascendenze e allusioni sovietiche, la prepotenza energetica della linea diagonale, che devia la lettura aprendo un mondo privo di ortogonalità e regolarità interlineare, acuta fantasia sul tema dell’assurdo, perfettamente coerente al prodotto teatrale associato (brevi pieces da Harold Pinter e Samuel Beckett, in scena a Buti l’ultima settimana di aprile).
Il secondo, semplicissimo ma non altrettanto potente: intestazione, nomi e crediti in scialba bicromia bianco-giallino; eccedenza e sovrapposizione di contenuti, predominanza dell’auctoritas del testimonial/divo sull’oggetto (Un giorno di noi, di Gabriele Paoli, in scena a Buti, anche questo, a metà maggio). L’uomo e la donna ritratti in fondo a una non connotata rampa di scale (Francesco Arca e Giorgia Surina sono i due attori, proprio loro; beh, allora …) comunicano un solo possibile messaggio: “posso vestirmi come mi pare, tanto sono comunque più figo/a di voi“.
Ma siccome – lo dico ogni volta e lo ripeto – non sono altro che un semplicione balordo, non aggiungo altro e mi rimetto a dormire.