Anni addietro, a margine di alcuni articoli a proposito di Daniele Luttazzi e Ascanio Celestini, proprio grazie al satirico romagnolo (la cui carriera ha, successivamente, incontrato rovesci da cui gli auguriamo di riprendersi presto), ci imbattemmo in alcune considerazioni circa l’uso e la stesura delle recensioni. Appartenevano a John Updike, romanziere non secondario del panorama statunitense, peraltro piuttosto famoso in patria per le recensioni pubblicate su autorevoli testate del proprio paese.
Il libro da cui Luttazzi traeva una preziosa citazione (Picked-up Pieces) non è mai stato pubblicato in italiano e, quindi, ricuperatane una copia, ne riportiamo una traduzione inedita di cui ci dichiariamo (nel bene e nel male) responsabili. Ovviamente, è stata rispettata la punteggiatura e l’enfatizzazione originale (virgolette e incisi); l’uso del grassetto è, invece, di responsabilità del traduttore.
John Updike, estratto dalla Prefazione a Pezzi raccolti
[originale: Foreward da Picked-up Pieces, New York, Alfred A. Knopf, 1976–1st edition 1975–pp.XVI-XVII; traduzione di Igor Vazzaz]
Più tardi, il Fato che muove il “dipartimento letterario” del “New Yorker” [giornale in cui Updike ha lavorato per qualche anno, ndr]ha iniziato a testare il mio stomaco di ferro con libri a proposito di nativi brasiliani e somatismi. Evidentemente, posso leggere qualsiasi cosa in inglese e formarmi un’opinione al riguardo. Non sono comunque sicuro che la “trovata” faccia al caso mio. A proposito di queste recensioni, sono orgogliosissimo — benché ciò che provi per le mie preferite è tuttavia una sorta di orgoglio paterno verso i figli più deboli — di queste: brani celebrativi e promozionali sull’onda di un primo entusiasmo (Kierkegaard, Borges, Proust, Fuchs) o incarichi assegnati che mi hanno portato a leggere di più, riflettere più accuratamente, di quanto fosse strettamente necessario (i pezzi su Camus, Hamsun, Hemingway, Joyce e gli africani sembrerebbero di questo tipo). Apologie, se ve ne sono, rispetto ad autori come Grass o Gombrowicz, che mi sono apparsi coperti d’una fitta nebbia d’ineffabili sfumature – polverose riproduzioni in plastica di statue i cui marmi puri splendevano in un museo inaccessibile. Ma anche quando la visibilità era assai scarsa, ho sempre cercato di concedere a ogni libro il beneficio di un “codice d’analisi” redatto interiormente una volta imbarcatomi in questa impresa o (“un uomo deve avere un mestiere”, mio padre era solito ripetere) mestiere.
Le mie regole, impresse a mo’ di intaglio dai traumi giovanili subiti dall’altra parte della barricata della critica, erano e sono:
1) Cercate di capire cosa l’autore volesse fare senza incolparlo per non essere riuscito in ciò che non ha neppure cercato di fare
2) Fornite citazioni dirette – almeno un brano esteso – della prosa del libro così che il lettore della recensione possa formarsi una propria impressione, provare il proprio gusto
3) Confermate la descrizione del libro con citazioni anziché procedere con sunti imprecisi
4) Non esagerate sulla narrazione della trama e non anticipate la fine. (Com’ero sbalordito e indignato, quando ero “innocente”, nel trovare i recensori a ciarlare, con la sublime noncuranza di nobili ubriachi che parlano d’una rivolta contadina, tutte le volte della mia narrativa piena di suspense e sorprese! Più ironicamente, gli unici lettori che si avvicinano a un libro come intende l’autore, non “inquinati” dalla conoscenza anteriore della trama, sono gli stessi detestati critici; e, anni dopo, il benedetto folle che prende il libro a caso dallo scaffale di una libreria)
5) Se il giudizio è negativo, citate un esempio positivo nel genere, da altre opere dell’autore o altrove. Cercate di comprendere, penetrare il fallimento. Siete sicuri che non sia il vostro?
A queste concrete cinque regole, potrebbe essere aggiunta una sesta, più indefinita, a proposito di mantenere una “purezza chimica” nelle reazioni tra il prodotto e chi lo deve giudicare. Non accettate una recensione di un libro che siete predisposti a criticare negativamente o, per questioni d’amicizia, apprezzare a priori. Non immaginatevi quali difensori di nessuna tradizione, sicari dei crismi di un qualche partito, guerrieri in una battaglia ideologica, secondini di qualsiasi tipo. Mai, mai […] provare a mettere l’autore “al suo posto”, facendo di lui un pedone in una partita con altri critici. Recensite il libro, non la reputazione del suo autore. Sottoponetevi a qualsiasi trucco, debole o forte, venga utilizzato. Meglio lodare e condividere piuttosto che incolpare e bandire. La comunione tra il recensore e il suo pubblico è basata sul convincimento di una certa possibile gioia nel leggere e tutte le nostre discriminanti dovrebbero piegarsi a tal fine.
Di seguito, infine, il testo nella sua versione originale.
More lately, the Fates that spin The New Yorker’s “Books” Department have taken to testing my iron digestion with books about Brazilian Indians and body cells. Evidently I can read anything in English and muster up an opinion about it. I am not sure, however, the stunt is good for me. Among these reviews I am proudest of – though what I feel for my utmost favorites is still a step-emotion to the parent’s pride taken in the feeblest tyke of a story or poem – those most voluntary: essays of celebration and promulgation moved by a prior enthusiasm (Kierkegaard, Borges, Proust, Fuchs) or assignments that provoked me to read more, or think deeper, than strictly called for (the piecese on Camus, Hamsun, Hemingway, Joyce, and Africans seem such). Apologies, if any, would be tendered to those authors, like Grass and Gombrowicz, who came to me coated with a muffling murk of missed nuances –dusty plaster replicas of statues whose pure marble glowed in an inaccessible museum, But even when the visibility was poorest I tried to give each book the benefit of a code of reviewing drawn up inwardly when I embarked on this craft, or (“a man should have a trade,” my father used to insist) trade.
My rules, shaped intaglio-fashion by youthful traumas at the receiving end of critical opinion, were and are:
1) Try to understand what the author wished to do, and do not blame him for not achieving what he did not attempt.
2) Give him enough direct quotation–at least one extended passage–of the book’s prose so the review’s reader can form his own impression, can get his own taste.
3) Confirm your description of the book with quotation from the book, if only phrase-long, rather than proceeding by fuzzy precis.
4) Go easy on plot summary, and do not give away the ending. (How astounded and indignant was I, when innocent, to find reviewers blabbing, and with the sublime inaccuracy of drunken lords reporting on a peasants’ revolt, all the turns of my suspenseful and surpriseful narrative! Most ironically, the only readers who approach a book as the author intends, unpolluted by pre-knowledge of the plot, are the detested reviewers themselves. And then, years later, the blessed fool who picks the volume at random from a library shelf.)
5) If the book is judged deficient, cite a successful example along the same lines, from the author’s ouevre or elsewhere. Try to understand the failure. Sure it’s his and not yours?
6) To these concrete five might be added a vaguer sixth, having to do with maintaining a chemical purity in the reaction between product and appraiser. Do not accept for review a book you are predisposed to dislike, or committed by friendship to like. Do not imagine yourself a caretaker of any tradition, an enforcer of any party standards, a warrior in an idealogical battle, a corrections officer of any kind. Never, never (John Aldridge, Norman Podhoretz) try to put the author “in his place,” making him a pawn in a contest with other reviewers. Review the book, not the reputation. Submit to whatever spell, weak or strong, is being cast. Better to praise and share than blame and ban. The communion between reviewer and his public is based upon the presumption of certain possible joys in reading, and all our discriminations should curve toward that end. […]