Il Piccolo, il calcio e il trionfalismo (ingiustificato)

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Quante me ne tocca leggere, di questi tempi, razzolando qua e là nel trovarobato delle notizie in odor di teatro! Io, che sono Arlecchino, amo scuriosare, leggere, impressionarmi dinanzi a minuzie saporite o gustose enormità, e confesso che, talvolta, non saprei ben distinguere le une dalle altre.

Di recente, infatti, sono incappato nella dichiarazione trionfal-trionfalistica diramata dall’ufficio stampa del Teatro Piccolo di Milano (ve lo raccomando quell’ufficio stampa… soltanto la non prossimità geografica ci ha risparmiato, sinora, altre diffide, ma non disperiamo) che, in un comunicato di qualche giorno fa, rimarca garrulo e gaudioso come “Per la prima volta il Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa supera il record di 25 mila abbonati: più di Inter e Milan. E il dato è in evoluzione” (i grassetti sono dell’originale).

Si aggiunge: “L’elemento più significativo e confortante è che il 35% sono giovani al di sotto dei 26 anni, con un aumento di quasi il 10% rispetto al passato“, definendo clamoroso (ancorché parziale) il risultato, giacché la campagna abbonamenti è ancora aperta. Il più e il meglio, per chi vuol legger tra le righe, è però l’apparentemente sorvolabile explicit del testo, che chiosa il tutto affermando: “I dati in mano al Piccolo concorrono a correggere una rappresentazione falsa dei “ventenni”, che spesso li relega al ruolo di indifferenti o disoccupati, per necessità o per scelta, e li consegna a un destino di rinuncia. La realtà dimostra che sono invece ‘attori’ importanti da comprendere bene, se si vuole interpretare il futuro“.

Partiamo dalla coda, ossia l’ottimismo profuso e diffuso implicato dall’ultima osservazione, un così evidente imbellettamento dei fatti che sin dalla Toscana (o, forse, proprio perché siamo in Toscana) puzza di Renzirenzismo: quel “va tutto bene” non così dissimile dai mitici “ristoranti pieni” citati da un precedente PresDelCons in vena di bicchieri mezzi colmi (probabilmente di grappa). I tempora son questi e, con buona evidenza, al Piccolo (spazio da decenni non troppo avulso da certi centri di potere) sanno adeguarsi con una certa agilità.

Chiariamo, poi, una cosa: attualmente, le formule di abbonamento, al Piccolo (si veda qui) come in qualsiasi altro teatro, sono talmente varie, parcellizzate e fantasiose, che la loro moltiplicazione non può essere considerata un dato statistico da assumere senza un’analisi più approfondita. Ormai ci si può abbonare a quattro, a otto, a sedici spettacoli; seduti in platea; a testa in giù (tipo l’alieno Mork del compianto Robin Williams); a gamba zoppa; vestiti di fucsia nei giorni dispari. Contabilizzare tutte queste forme alla stregua di abbonamenti, in senso generico, è un sistema capzioso e ingannevole, uguale a quello di certi siti d’informazione che, confonendo visitatori utenti unici, proclamano di avere diecimilamilioni di lettori. Sì, come no…

Il punto, però, è ancora un altro, e io, che sono Arlecchino, voglio provare a spiegarlo in modo chiaro, premettendo che, come ogni semplicione balordo che (non) si rispetti, sono pure un grande appassionato di pallone:

  1. Ma perché mai in questo trito e tristo paese il calcio dev’essere metro e paragone d’ogni cosa?
  2. Che senso ha paragonare abbonati teatrali (nelle forme di cui sopra) con quelli calcistici, specialmente in un periodo particolarmente difficile per lo sport più amato dagli italiani, periodo che non risparmia né punto né poco le due nerostrisciate compagini meneghine?
  3. Il fatto che il calcio raccolga meno spettatori di un tempo è anche dovuto alle ormai critiche condizioni degli impianti, nonché alla trasmissione televisiva di tutte le partite: il teatro davvero potrebbe competere, tenendo conto di questi fattori?

Non solo: il presunto sorpasso che il Piccolo scambia, con equivoco a dir poco risibile, per un successo del comparto culturale (ma dove? ma quando?) è, invece, il segno d’un momento di difficoltà che abbraccia tutto del mondo dello sport (potremmo parlare delle condizioni miserrime dell’atletica italiana, senza bisogno di attendere il medagliere di Rio). La crisi del calcio è, nel quadro complessivo, lo specchio d’un declino ben più profondo e che tocca questioni assolutamente fuori portata per me, che sono Arlecchino: la definizione di intrattentimento popolare, la questione dell’identità (il calcio è, senza dubbio, lo sport che nel bene e nel male rappresenta il maggior vettore identitario, in senso sociale, del nostro paese), persino la percezione (e la pratica) dello sport e delle attività fisiche per i bambini e per i giovani di oggi, così diversa rispetto agli ultimi anni del secolo scorso.

E ancora: è mai possibile che il Teatro d’Europa gongoli così sfacciatamente, sventolando i suoi venticinquemila abbonati alla stregua d’un pornoattore che sventola i propri tre decimetri di pisello, dando colpevolmente per scontato la coincidenza tra quantitàqualità? Siamo, anzi, sono così sicuri che il gran numero sia un indice qualitativo? A me pare davvero un principio grossolano, risultato di una prospettiva mercantilistica del lavoro culturale.

Insomma, alla luce di tutto questo, mi pare ci sia poco o nulla da festeggiare.
Non andatelo a dire, però, a quelli del Piccolo.
Potrebbero replicare offrendovi una nuova forma di abbonamento: quello a un solo spettacolo, per poi dire che hanno battuto ogni record.

l'Arlecchino
È un semplicione balordo, un servitore furfante, sempre allegro. Ma guarda che cosa si nasconde dietro la maschera! Un mago potente, un incantatore, uno stregone. Di più: egli è il rappresentante delle forze infernali.

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