In questi giorni c’è un bel film nelle sale (poche, purtroppo, ma è il destino delle pellicole festivaliere, schiacciate da roboanti action movie e film d’animazione). Si chiama Marguerite, ed è scritto e girato da Xavier Giannoli, un cineasta francese che ha all’attivo una mezza dozzina di lungometraggi.
Nell’oceano di presentazioni, svolazzi mondani e dotte esegesi che hanno accompagnato come sempre il Festival del Cinema di Venezia, ha avuto una sua piccola onda.
Perché parlarne in una rivista di teatro?
Forse perché l’offerta spettacolare di settembre è ancora piuttosto ridotta e lascia spazio a qualche “divagazione”?
Sì, può darsi.
Forse perché il teatro, quello musicale almeno, è al centro della vicenda, avendo questa per protagonista una donna – la Marguerite del titolo, siamo nella sfavillante Parigi degli anni Venti – la cui ambizione è cantare nei maggiori teatri d’opera?
Certo, anche per questo.
Ma il primo motivo è che, al di là di certe superficiali interpretazioni che ci è capitato di leggere, zeppe di rimandi ad altre storie, altri autori, altri immaginari cinematografici, il film (ben recitato, e con dialoghi limpidissimi) è sembrato a chi scrive una formidabile riflessione sulla violenza dell’Illusione e sulla violenza del Giudizio.
La prima forma di violenza è quella che imbeve e poi corrode la psiche di Marguerite, la quale, credendosi dotata di talento superiore, si esibisce di fronte a parenti e amici nella sua residenza, aspirando a calcare palcoscenici più nobili. Ma il suo talento è una pia illusione, appunto, e la stonatissima Marguerite se ne renderà conto troppo tardi, avviandosi a un tragico epilogo.
C’è poi la seconda forma di violenza, quella che lega in una complicità subdola e perversa (perché si manifesta senza essere esplicitamente progettata) le persone che potrebbero, o dovrebbero, voler bene a Marguerite e confessarle la verità. Tutti spinti – per indole vile o crudele – ad assecondare la donna, a non ostacolarne i desideri, magnificandola e al contempo deridendola segretamente per la sua inconsapevole inettitudine.
Da una parte il terribile destino di chi non sa chiudere a chiave i propri sogni nel cassetto, di chi non sa veramente misurarsi, cioè (ri)conoscere il proprio reale valore; dall’altra la crudele connivenza di chi gode nello schernire, o semplicemente ci guadagna (tra le sequenze di genio e di sublime ironia, mi permetto di segnalare quella in cui un avanguardista, ascoltando Marguerite in uno dei suoi concerti privati, si entusiasma a tal punto per la sua voce “anarchica” da proporle di cantare l’inno nazionale durante un evento antifrancese; vedi immagine in evidenza).
A buon intenditor …