Sdottorazzare intorno a Il barbiere di Siviglia è impiego per incoscienti, sconsiderati o… arlecchini. Lo facciamo di martedì grasso, col buon giuoco della ricorrenza carnevalesca nella speranza che le circostanze, siòre e siòri, facciano perdonare qualsivoglia mancanza al qui presente operato. Ché sulla storia del capolavoro rossiniano, è innegabile, si son versate orcie d’inchiostro nel tentativo di sondare, penetrare uno dei titoli più conosciuti, amati e cantati al mondo.
Turbillon (quello della vicenda, in cui tremoto e temporale sono evocati, sino alla finale manifestazione del secondo) nel turbillon: il lavoro del ventitreenne pesarese già baciato dal successo internazionale viene attraversato da storie e accavallamenti degni di un’autentica saga, sin nella sua genesi romana. «Sono felice» scriveva alla madre, in riferimento al soggiorno in via dei Leutari (tra via del Governo Vecchio e corso Rinascimento: una laconica targa ricorda i fatti che, quando son tanto grandi, non abbisognano di troppe parole), nell’abitazione condivisa col baritono Luigi Zamboni [qui ritratto], primo Figaro rossiniano (Mozart aveva già dato, due decenni prima) della storia.
Eppure la città che a fine 1815 aveva accolto il pesarese alla stregua d’una vera star, fu alquanto scostante sia col genio sia con la di lui opera, destinata, più d’ogni suo altro titolo, a eternarsi anche oltre i confini del melodramma. Rossini vi giunge da Napoli, dopo aver spopolato, cosa che, del resto, avveniva in tutta Europa, dalla Francia alla Spagna sino in Russia: L’italiana in Algeri e Il turco in Italia non cessavano di mietere successi. Domenico Barbaja, suo impresario, lo invita alla collaborazione con due teatri della Città Eterna, l’Argentina e il Valle. I romani adorano quella nuova musica («Porca» secondo lo stesso autore, in un carteggio coi genitori) briosa, innovativa, in grado d’alternar finezze belcantistiche a crescendo imperiosi. Nonostante ciò, il pubblico indigeno è felino, spesso spietato: il 26 dicembre, la prima di Torvaldo e Dorliska passa al Valle quasi inosservata. Poco male: è ordinario che successi e insuccessi si susseguano. Quel che conta è che la musica si suoni, il pubblico accorra e, prima o poi, consacri. Del resto, non distante dal Valle, al già citato Teatro Argentina, il contralto Geltrude Righetti Giorgi [a lato]contribuisce non poco al clamoroso successo nei panni dell’Italiana in terra algerina; ed è per lo stesso teatro che arriva a Rossini la commissione per il lavoro successivo.
Altro giro, altra corsa: il pesarese sceglie un testo di Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais [a lato], inserendosi di sua sponte nel solco dell’idolatrato Mozart. Se il salisburghese aveva trasposto in musica (complice il genio di Lorenzo Da Ponte) Le nozze di Figaro, Rossini si rivolge al “capitolo” precedente della serie comica, Le Barbier de Séville (1775), e lo fa con una prospettiva assai singolare. Da un lato, volendo imprimere un innegabile cambio di prospettiva, centrando la storia sul conte e non sul barbiere: prova ne sia il primo titolo del componimento, Almaviva o sia l’inutile precauzione (titolo destinato a un presto declino); dall’altro, denotando un profondo rispetto riverenziale verso il geniale drammaturgo francese, dato che la definizione del nuovo lavoro, nel sottotitolo, è e rimane commedia (non diciture pure consuete quali dramma giocoso, opera buffa o simili), quasi a sottolineare l’intoccabilità d’una fonte tanto pregiata.
Seicento e passa fogli di partitura in circa venti giorni: impresa titanica, nonostante l’abitudine dell’epoca (lecita e consueta) di citarsi, traslare temi e soluzioni da un’opera all’altra, pratica che in Rossini, secondo Giampiero Cane (cfr. Sade, Rossini Leopardi. Tre formazioni dolorose, Roma, Manifestolibri, 1996), trova applicazione di particolare pregnanza filosofica. Sia come sia, il 20 febbraio 1816, superata la censura pontificia per il libretto di Cesare Sterbini, si va in scena e il fremente pubblico dell’Argentina attende il nuovo lavoro.
Mito quasi certamente da sfatare è che Almaviva o sia l’inutile precauzione abbia registrato un fiasco al debutto causa l’onta d’aver ripreso un titolo celebre anni prima di Giovanni Paisiello, tarantino di nascita, partenopeo d’adozione.Questi era ancora vivo la sera del debutto, quando tutto quel che potè andar male andò pure peggio, ma non pare vi siano prove concrete circa l’esistenza effettiva di “partiti paiselliani” all’ombra del cupolone. Le cronache, tra realtà e leggenda, riportano che:
al leggendario tenore iberico Manuel del Pópulo Vicente García [a lato], noto come Manuel García padre, colui per il quale venne scritta la partitura come dimostrerebbe la differente titolazione rispetto alla fonte teatrale, saltarono alcune corde della chitarra durante l’esecuzione di Se il mio nome saper voi bramate;
Zenobio Vitarelli, basso nei panni di don Basilio, cadde sulla scena, riportando una brutta colpitura e una copiosa epistassi nasale;
infine, nella parte finale, pare che un gatto nero abbia traversato il palco, mandando definitivamente in vacca tutto.
La sera successiva, un imprevedibile e assoluto trionfo , bissato mesi dopo dalla prima bolognese (10 agosto) del titolo, per una serie di successi che, comprensibilmente, non vede esaurirsi da quasi due secoli.
E dire che ricerche relativamente recenti (cfr. Saverio Lamacchia, Il vero Figaro ossia il falso factotum, Torino, EDT, 2008), tra lo studio delle numerose varianti applicate allo spartito (spesso con l’avallo dell’autore medesimo), discutono addirittura la centralità del personaggio affermatosi come centrale nella storia dell’opera, ossia il factotum. Vero è che Rossini confeziona la partitura “addosso” ad Almaviva, il tenore García, nome “importante” nel cartellone del debutto, e la scelta parrebbe confermata non solo dal primo (e originale) titolo, ma anche dalla trama vera e propria. Nell’economia della vicenda, a ben vedere, Figaro è l’esatto contrario d’un tuttofare, giacché ogni sua invenzione si rivela fallata, inefficace, e se il dramma ha soluzione, lo si deve solo al copioso denaro versato da Almaviva in persona. Altro che amore! Le radici del risaputo cinismo rossiniano rispetto alla comedie humaine sono già ben piantate: Figaro è, nei fatti, un millantatore particolarmente abile nell’autopromozione, interessato ai soldi, ma di scarsissima utilità; un personaggio drammaticamente moderno pure per l’epoca presente, a essere sinceri.
I motivi per cui si passi, quindi, dal titolo Almaviva, corrispondente al fiasco del debutto, al più accettato Barbiere sono e ancora saranno oggetto di discussioni. Così come la peculiare oscillazione dell’opera che coinvolge non solo la struttura drammaturgico-musicale (si contano almeno tre arie alternative, nonché una riscrittura, di pugno rossiniano, dell’aria Cessa di più resistere, adattata appositamente da tenore a contralto, per una recita padovana della già citata Geltrude Righetti Giorgi, prima Rosina della storia), ma persino la stessa assegnazione dei ruoli. Benché la protagonista femminile sia, in origine, concepita per un contralto d’agilità, nella storia la parte è stata interpretata da mezzosoprani (l’inarrivabile, per chi scrive, Teresa Berganza, qui a lato) e, a più riprese, da soprani lirico leggeri, sino a un soprano drammatico (per quanto d’agilità) come la divina Maria Callas. Non solo: quando Rosina è cantata da un soprano, la parte di Berta (originariamente di registro acuto) passa a un mezzosoprano, per mantenere l’ampiezza vocale d’insieme. Ancora un turbillon.
Ed è nella sua essenza di testo (in senso lato) da interrogare all’infinito, ricco di minuziose sfaccettature e impagabili sorprese, che Il barbiere di Siviglia individua la sua ragion d’essere, la sua inebriante e inesauribile vitalità, nella dimensione di intramontabile classico. Impossibile, quindi, non rilevare, negli ultimi versi della celeberrima cavatina di Figaro, gli estremi d’una sapiente e verificata premonizione: «Ah, bravo Figaro! Bravo, bravissimo: a te fortuna non mancherà».