Proseguiamo l’indagine, tra cortili, stradine secondarie, scorci magnifici e spettacoli in via di assestamento, ponendoci un po’ di questioni relative a come trattare una rassegna peculiare quale Tempi moderni. Abbiamo deciso, in questa fase, di seguire i titoli in modo da visitare tutti e sette i luoghi di spettacolo, scelta senz’altro sensata, ma che implica la rinuncia a un altro punto di vista, potenzialmente non meno interessante, ossia la possibilità di osservare l’evoluzione, nella qualità spettatoriale, della singola corte. Certo, questo tipo di sguardo potrà completarsi, almeno in parte, con una visione deititoli in programma nella prossima settimana, ma capire se, nell’arco di quattro differenti spettacoli dati in nove giorni, un campione particolare come il pubblico di una singolare unità abitativa possa “svilupparsi” è senz’altro elemento che ci incuriosisce.
Nondimeno, dopo aver registrato la repentina maturazione dei primi due allestimenti (questo già al secondo giorno di repliche), proseguiamo e completiamo il racconto della prima settimana, accorpando le tre performance viste tra sabato e domenica sera.
Ruota, di piazza e parcheggio
Incuneato tra le pieghe dei Monti Pisani, Ruota è un paese che si snoda quasi esclusivamente lungo una strada assai stretta che lo attraversa per intero. La naturale conseguenza è, non solo, l’estrema difficoltà per trovare un posto dove lasciare la macchina (venire in bici è improbabile, date le rampe), ma pure quella di invertire il senso di marcia una volta superato il centro. Nondimeno, la gente del luogo è ben usa a suddette problematiche, e solo nel buio della boscaglia, in pieno sterrato, abbiamo attribuito un senso ai sorrisi complici dei vecchietti al bar, visti quando (rigorosamente a passo d’uomo) abbiamo attraversato la piazza in cui si svolge lo spettacolo.
Quest’ultimo dato differenzia non poco la tipologia di repliche: portare un allestimento in una corte significa andare letteralmente a casa delle persone, entrare in uno spazio quotidiano e privato, in senso sia fisico sia metaforico. E di questo si deve tener conto pure in termini di proposta espressiva. Recitare e danzare in una piazza ha tutt’altro senso, è pratica ben più consueta, a prescindere dalla vivacità del borgo in questione.
Qui a Ruota, il bischero interpretato da Mariano Nieddu raccoglie vivaci consensi, ben riuscendo a sintonizzarsi sulle frequenze di un pubblico ben disposto. Lo stesso si dica per Ilenia Romano, sempre più a proprio agio su una partitura musicale che ne ha messo alla prova inventiva e fantasia. Non ci sono ulteriori note, se non che, da queste parti, l’estate è assai temperata.
Matraia, aia con vista
Si cambia versante collinare, nel tardo pomeriggio della domenica, ma non titolo: Per i bischeri non c’è paradiso approda nell’assolata (sono le 20) Aia Saponati di Matraia, paese a metà delle Pizzorne, il complesso che domina a settentrione la piana lucchese. Da qui, si ammira un paesaggio assai suggestivo e, sarà un caso, si registra l’affluenza di un pubblico più variegato ed eterogeneo rispetto al solito. Non mancano, per fortuna, i destinatari primi di Tempi moderni, gli abitanti veri delle varie corti e del comune capannorese, ma, a questo giro, si contano svariati addetti ai lavori, appassionati, persone, insomma, che si sono messe appositamente in viaggio per arrivare sin qui.
I meccanismi di scena sono ormai ben oliati, e solo il pensiero di un’ultima replica poco dopo (ore 21.30, nella vicina Marlia) impedisce a Mariano Nieddu di farsi portare il sospirato caffè entrato a far parte, a suon di inserti estemporanei, del testo scenico, nel momento centrale. Romano, da parte sua, disegna acute traiettorie con le lunghe leve, calcando ulteriormente le caratterizzazioni di un personaggio enigmatico, sfuggente, e, forse proprio per questo, dotato di gran fascino.
Lammari, conclusione
Si chiude con le schiappe, e l’ultima di sette performance per Giselda Ranieri e Silvia Frasson. Corte Cristo, a Lammari, rappresenta un’ottima sintesi dei luoghi visitati in questi giorni: ambiente popolare, accogliente, ben disposto verso qualcosa “di nuovo”, con la singolare sorpresa, da parte di alcuni spettatori attempati, circa l’esigua durata dell’esibizione. Elemento forse notevole: adusi a logiche legate alla quantità contabilizzata, una performance di circa mezz’ora rischia di spiazzare non tanto per l’intrinseca incompletezza, bensì per la mancanza di riferimenti rispetto al tipo di opera. E così, nella pacificante dimensione di un rinfresco gentilmente offerto dalla famiglia che abita la casa esattamente di fronte alla pedana scenica, assistiamo allo scambio di impressioni in merito, all’unanime apprezzamento per quanto visto dalle due artiste e alla “necessità” di dare seguito a proposte come la presente.
Per quanto concerne La finale delle schiappe, titolo che abbiamo visto “soltanto” tre volte in quattro giorni, dopo il grande exploit di venerdì sera, registriamo il consolidamento di quanto notato nell’ultima occasione. Frasson è del tutto a proprio agio con testo e personaggio, al punto da permettersi di giocare sempre di più con le sfumature, tra pause e accelerazioni, dosando il tutto con grande personalità. Ranieri si conferma in forma smagliante: il suo, di personaggio, ci pare sempre più ben assestato, e profondo, altro che troppo ammiccante e smorfiosetto (osservazione comunque bonaria mossa altrove): l’impressione è di un corpo separato dalla testa, in particolare dalle espressioni facciali, con sequenze che giocano sia sul contrasto sia sull’accordo tra le parti. Si ha l’idea d’una figura ballata, nel senso che viene ballata, e non che balla, schiudendo ulteriori possibilità di (non) senso a una serie di soluzioni che già in prima istanza ci parevano del tutto convincenti.
Questo è quanto, al termine di un’autentica escursione di quattro sere tra luoghi davvero ameni, spettacoli da veder crescere, spettatori da incontrare, ci auguriamo, nuovamente.