L’atteggiamento adottato da puristi e melomani nei confronti degli spettacoli operistici più amati è simile a quello di un musicista metal a un concerto di una band del medesimo genere: osservare in maniera morbosa l’esecuzione dei brani come a volerne cogliere il minimo errore.
Più che sulla performance canora, vogliamo qui addentrarci nell’osservazione delle scenografie tratte dall’ultima versione di Tosca andata in scena presso il teatro di Torre del Lago. L’allestimento di Giorgio Ferrara s’è avvalso delle scene firmate da Domenico Paladino [foto a sinistra], ai più noto come Mimmo, uno dei principali esponenti della Transavanguardia, corrente promossa e teorizzata da Achille Bonito Oliva negli anni Ottanta, opposta all’arte concettuale, dominante dagli anni Sessanta in poi, in favore di un ritorno alla pittura e alla manualità.
Guardiamo in particolare le “cornici” realizzate da Paladino; per l’opera pucciniana l’artista ha costruito 3 scenografie, una per ciascun atto. Nel primo, quello che il libretto ubica all’interno della Basilica di S. Andrea della Valle, l’artista ha creato tre oggetti di grande possanza: a sinistra, un altare composto da tre gradini e una pala; a destra, un poligono dalle mille sfaccettature e, infine, al centro il mastodontico ingresso della cappella Attavanti, dal quale si vedono le scale poste nel retrovia.
L’idea della purezza cristiana è suggerita dal colore bianco, che, inoltre, attribuisce alle sculture la parvenza del marmo. Lo stile di Paladino è riconoscibile in quella sorta di bassorilievo al di sopra del portale, che raffigura il simbolo religioso del calice all’interno di una mano.
L’arto infatti è il medesimo che si può osservare nel dipinto Come in uno specchio del 1989 [a sinistra] o ancora meglio in Pane del 1995 [miniatura a destra].
Sono molte le attribuzioni che possono essere attribuite alla raffigurazione della mano: nella tradizione biblica indica, semplicemente, l’onnipresenza divina; nel Nuovo Testamento, simboleggia la presenza di Dio, mentre nell’iconografia cristiana è il chiaro esempio della sua potenza e, nel caso in cui si rappresentata come aperta, dell’atto della benedizione.
Nella circostanza scenica, siamo inclini a pensare che la mano richiami Dio in quanto presenza, nell’accezione eucaristica del Corpo di Cristo; è, infatti, accompagnata all’altro simbolo legato al sacramento della comunione: il calice. Alla sottoscritta, così come ad altri spettatori, di primo acchito è sembrata, piuttosto, una tazzina di caffé; vuoi perché italiani, o perché affetti da dipendenza caffeinica, ma questo disegno ci ricorda le pubblicità della calda bevanda reclamizzata un tempo da Nino Manfredi [a sinistra] e Gigi Proietti, poi dall’accattivante George Clooney, per poi tornare agli autoctoni Paolo Bonolis ed Enrico Brignano.
Nel lavoro di Paladino per Tosca, anche il monumentale ingresso alla cappella Attavanti non parrebbe di nuova creazione: vi si ritrova, infatti, un evidente richiamo alla celebre Porta di Lampedusa – Porta d’Europa. I tempi attuali, forse, sono i più adatti per citare un’opera il cui significato primario è la commemorazione dei milioni di migranti morti durante le traversate nel Mediterraneo. Nonostante le dichiarazioni dell’artista, contrario al far divenire l’opera d’arte un monumento («l’artista deve raccontare, non celebrare»), la porta fu inaugurata nel 2008 e posta proprio sul promontorio di Cavallo Bianco.
Palazzo Farnese domina il secondo atto e, nella sua realizzazione, si è optato per tre pannelli che chiudono l’intera scena, in ognuno dei quali è celata una piccola porta da cui entrano ed escono i personaggi. In proscenio, sulla destra, vi è una scrivania con una grande poltrona, mentre sulla sinistra un triclinio di matrice più moderna, stile “lettino da psicanalitica”, per intenderci.
La colorazione dei pannelli alterna righe rosse e color crema: chi vuole, può trovarvi un richiamo alla composizione di mattoni (albasi e ferraioli) che riveste il vero palazzo romano. Altro elemento scenografico dominante sono le decine di ritratti fotografici attaccati ai pannelli, così simili alle foto segnaletiche appese ai muri nei film polizieschi. Del resto ci troviamo all’interno dell’appartamento di Scarpia, l’antenato di Montalbano; benché si debba ammettere che la memoria di chi scrive è subito andata a ripescare un gioco da tavola dell’infanzia, Indovina chi? [foto a destra].
«E lucevan le stelle…», così è scrissero Giuseppe Giacosa e Luigi Illica; il nostro Paladino prende alla lettera il testo e pone al centro della scena un enorme disco, i cui intarsi regalano giochi di rifrangenze, evocatori di un cielo stellato.
Non serve sfogliare i cataloghi dell’artista campano per trovare alcune similitudini, data la vastissima produzione di Scudi. Egli, infatti, oltre a realizzarne fortunate serie pittoriche, ne scolpisce alcuni in rame, ceramica e altri materiali. Si ricordano gli Scudi di Villa Pisani in Veneto, quello inserito all’interno dell’installazione Hortus Conclusus nel convento di San Domenico a Benevento o i Sette Scudi nel cortile del Museo Madre di Napoli.
In conclusione, non vogliamo certo contestare il lavoro di uno dei più interessanti e celebrati artisti degli ultimi decenni, quanto, semmai, riflettere sull’ennesimo utilizzo di copiose somme per una firma “nobile”. È dagli inizi del Novecento che molti artisti hanno accompagnato con le loro creazioni produttori, direttori e anche teatranti, solo per citarne alcuni: Picasso, Matisse, Depero, Balla. Tale “matrimonio”, potenzialmente assai stimolante, negli ultimi tempi sembra sia diventato routinario, previsto e scontato, o, ancora peggio, solo un semplice passaggio d’assegni circolari.
Nessun artista lo ammetterà mai, soprattutto perché ognuno di essi lavora in nome dell’arte e della sua profusione, ma, talvolta, negli occhi di chi osserva il dubbio rimane.
Era un caffè o un calice? Beviamoci su.