Il dialogo con la divinità è un’idea fissa attraverso la storia d’Occidente, dalla mitologia greca alle Sacre Scritture. Il dio ebraico somiglia forse più a un monologhista, specie quando s’adopra alle incisioni su roccia, ma è vero che, nella tradizione talmudica, la discussione tra fedeli e creatore ha una sua consuetudine, contribuendo non poco ad alimentar la proverbiale vis dialettica degli eletti. È in questo filone che s’inserisce Il visitatore, del belga Éric-Emmanuel Schmitt, la cui première parigina risale al 1993.
Vienna, 1938, Anschluss: casa Freud è presa di mira dalla Gestapo. Anna, ultimogenita di Sigmund e a sua volta psicanalista di rilievo, viene arrestata nei giorni precedenti (verità storica) all’ottenimento dell’espatrio, per sé e una discussa lista di cari, da parte del genitore. Qui, nella finzione teatrale, il padre della psicanalisi, ateo benché d’origine ed educazione ebraiche, riceve la visita d’un peculiare personaggio che si rivela essere dio. Non quello degli eserciti, onnipossente e iracondo, ma un improbabile e scanzonato raisonneur che inchioda il dottore alle aporie della propria mancanza di fede.
La regia di Valerio Binasco inscrive la vicenda in uno spazio più compresso del quadro scenico, scelta vagamente brechtiana: riflettori a vista, pareti minute e chiaramente posticce d’un interno troppo ristretto per esser vero, a sottolineare l’artificiosità del tutto, la teatralità. S’aggiunga l’andatura e la recitazione strascicata di Alessandro Haber, tutta borboglii e mugugni, per un vecchio in disarmo, fiaccato dal tempo e dai rovesci dell’epoca. Cuore del dramma l’asse Freud-dio, Haber-Alessio Boni, capello riccio, barba e fare da clochard: l’incipit e il finale con Anna (Nicoletta Robello Bracciforti) e l’ufficiale nazista (Alessandro Tedeschi) servono giusto a incorniciare il cuore del testo, procedimento forse analogo alle opzioni scenografiche.
Le premesse ci sarebbero per una pièce tagliente, sul filo di rasoio del paradosso con cui agganciare lo spettatore, mettendolo in crisi, facendogli vivere il dubbio e lo scacco del dottore, mandandolo a casa con qualcosa. Ne vien fuori, invece, una scherma da commedia arguta che il pubblico dimostra apprezzare, ma che lascia tutto intatto.
Poco aiuta la caratterizzazione dei personaggi, esteriore, smaccata, a partire dal dio di Boni, tra Peter Pan, piccolo diavolo e il Lucignolo à la Kim Rossi Stuart (ribadendo la memoria benignesca da un lato e il primo allestimento italiano del testo, con Rossi Stuart nella parte di dio diretto da Antonio Calenda). Ammiratrici di Boni in visibilio, ma le tirate del bello sono davvero sopra le righe, furbizie strappa-applausi, i quali cadono puntuali. Il Freud haberiano ci pare assai distante da quello storico, più sottile, pungente del burbero dolciastro tratteggiato dall’attore bolognese. Non si capisce l’intenzione di Binasco, ammirato e da regista e da interprete, poiché di rimarcare l’artificio in tal modo non ci pare vi fosse urgenza.
Neppure il testo aiuta, al di là del ventennale successo: abdicare al dubbio circa l’effettivo statuto del visitatore ci pare occasione mancata per un’idea che avrebbe potuto trovare soluzioni ben più brillanti e stringenti. Si punta, invece, sulla riconoscibilità degli interpreti, questa l’impressione, vecchia abitudine del nostro teatro.
Il pubblico del Giglio di Lucca è unanime ed entusiasta, chi scrive carezza i propri dubbi in solitaria.