Lo ribadiamo, anche al di fuori del recente Lucca Teatro Festival: tra i luoghi comuni più frequentati in scena v’è da annoverare quello in merito al teatro ragazzi che in nulla sarebbe da meno rispetto a quello “per adulti”. Principio sacrosanto, salvo poi riscontrare palpabili scollamenti tra gli ambiti, a ovvio svantaggio del giovanile, assai meno (anzi nulla) monitorato dalla critica e affidato alle non sempre provvidenziali cure d’insegnanti le cui buone intenzioni mal s’accoppiano con la competenza. O peggio: il filone si fa riserva d’impiego per teatranti al palo, illusi che i fanciulli sian pubblico facile e di palato non troppo fino. Niente di più errato: se è vero, e lo è, che le categorie di giudizio degli infanti, così come certi procedimenti logici, hanno percorsi talvolta spiazzanti, è altrettanto certo che i bambini sono un pubblico poco ingannabile o clemente; nel teatro “adulto” il dissenso è ormai bandito (da trent’anni non s’ode un fischio!), in quello per ragazzi non è raro riscontrare freddezza, quando non aperta ostilità, dinanzi a uno spettacolo mal riuscito.
Queste e altre riflessioni sono il lascito di Hansel & Gretel dei Fratelli Merendoni, un delizioso saggio di maestria teatrale in grado di avvincere ogni tipo di sguardo. Nella desolazione d’uno scalcinato teatrino di marionette, ricavato all’interno di un gigantesco contenitore che pare un armadio componibile, due improbabili figuri simili a clochard tentano di cimentarsi nella messinscena di quello che chiamano, con arte imbonitoria, «Speeettacoloooo». La cornice è il pre-testo per una costruzione composita, giocata sugli stilemi comici della serie, in una paziente gestione dei tempi narrativi. La chicca è l’autentico e azzeccatissimo teatro nel teatro, ché la prima parte della fiaba vera e propria mostra al pubblico il “retropalco” della recita marionettistica, la cui scena è rivolta, invece, verso il “nostro” fondale. Ribaltamento gustoso, per niente gratuito: consente ai due bravi interpreti e orditori (Pasquale Buonarota e Alessandro Pisci) inserti d’apprezzabile malizia come l’ironia sulla pubblicità, il felice impiego di strumenti musicali e così via.
Il viaggio dietro le quinte s’impreziosisce di varie trovate, in un campionario pressochè completo d’arte scenica, pur una magica ricognizione nel meraviglioso trovarobato della squinternata compagnia Merendoni.
Indovinatissime le ombre cinesi, sequenze mimiche di rara efficacia, con un dosaggio dell’illuminazione d’impressionante puntualità, il tutto assemblato in un insieme organico di comica dolcezza. Per non dire degli oggetti, le sagomature, i mascheroni che animano l’universo dischiuso allo sguardo degli ammirati spettatori.
Sono buffi questi fratelli, l’uno doppio dell’altro: polverosi, spaesati, oniriche forme d’inguaribili sognatori dal sapore chapliniano.
I bambini in sala apprezzano e non poco: hanno completamente ragione. Verrebbe da pensare che questo sia il vero teatro, l’unico plausibile: quello che, senza rinunciare alla metateatralità, all’interrogazione sul proprio statuto, non batte la via dell’intellettualismo sterile a lisciare il pubblico e rifilargli una sòla, né quella della sensazione, del nome noto in cartellone. Non potrebbe farlo. E, allora, sceglie il modo migliore: rispetta profondamente il suo pubblico, non lo sottovaluta, fornendo prova di rigore formale, grande concezione e palpabile amore per il proprio lavoro. Doti rarissime, che ricambiamo come possiamo, unendoci all’ovazione infante che saluta gli artisti a fine recita.