Acquasanta, dopo cinque anni di repliche, ancora alla ribalta del fiorentino Teatro di Rifredi, è il primo dei tre episodi della Trilogia degli occhiali, scritta e diretta dalla sicilianissima Emma Dante. Un trittico di atti unici, indipendenti, ma legati l’uno all’altro da un filo rosso immaginario di personaggi che, gravitando fra i confini di un piccolo microcosmo d’emarginazione, miseria e vecchiaia, vivono intensamente nel ricordo. Gli insoliti eroi, servendosi delle proprie lenti, riescono a sublimare la propria sofferenza spiccando il volo in una personale dimensione fantasmagorica, dove il peso della realtà è più sopportabile.
La poesia nel teatro di Emma Dante pulsa ancora una volta, non solo per la messinscena dei suoni e dei colori del suo Profondo Sud, ma pure grazie alla capacità evocativa di una drammaturgia e una regia polimorfe: sembra di percepire gli odori e i sapori di quei mondi oggi più che mai sommersi; storie “altre”, dotate di un lirismo più istintivo che retorico, vibrano nel loro ultimo canto del cigno. Dal pluripremiato, ultimo spettacolo Le Sorelle Macaluso (2015, qui le recensioni arlecchine di Balestri e Vazzaz) ad Acquasanta, riaffiorano, catarticamente, tutti i retaggi del ricordo di ciò che non vi è più, di chi è morto o di cosa è svanito.
O’Spicchiato/Carmine Maringola è un altro degnissimo personaggio della variopinta galleria dantiana, che s’esprime nel segno dell’ibridazione del registro drammatico con quello comico. Sono una trentina di contaminati tintinnati, appesi sopra la testa del marinaio, in un ticchettio inesorabile, a scandire il tempo dell’azione e del ricordo sollecitato nella mimata suggestione dell’ondeggiare di una barchetta fra le onde. Spicchiato rimane ancorato nella sua piccola gabbia dorata a cielo aperto, la nave dove ha sempre vissuto, fin dalla giovinezza da “secondo mozzo”, nutrendosi con folle lucidità dell’amore per l’infinito, per il mare che incarna una stilnovistica donna-angelo, la sua Maruzella, che nello spettacolo non manca di cantare.
La storia di un uomo umile, emarginato da una ciurma che lo deride, lo sevizia per le sue stramberie, viene affrontata da una sintesi registica e scenografica efficace, una stilizzazione di linee e contrappesi per una scenografia in movimento, ancorata al corpo dondolante di Spicchiato/Maringola, in balia delle onde, in preda al proprio amore disperato. L’uomo marionetta-pupo-guarattella, Pulcinella dei mari che affronta bizzarramente la tempesta con piglio clownesco di chapliniana memoria, è stretto nei fili ai quali, mediante tre carrucole, sono attraccate tre ancore che stanno per aria. Spicchiato rimane per tutto lo spettacolo così, crocifisso in una minuscola barchetta, in una sospensione dinamica. Prendono vita, a poco a poco, i suoi trascorsi di mozzo, ora che l’uomo è amaramente abbandonato, dopo una vita in mare, sulla terraferma.
Ci troviamo ancora su quella nave o su una prua fantastica frutto dell’immaginazione dell’uomo, ormai amaramente spiaggiato sulla banchina di un porto qualsiasi? Sul terreno dell’ambiguità, della compresenza fra vivi e morti, della consonanza fra realtà e immaginazione, Emma Dante continua a muoversi alla perfezione: Maringola si sdoppia, si triplica, mostrando una notevole abilità non solo pantomimica, ma interpretativa, nei panni del Capitano e di uno dei rozzi uomini della ciurma che molesta Spicchiato. E mentre il pubblico abbandona la sala divertito, il marinaio resta lì, in scena: non vuole abbandonare la sua barchetta rossa, fra i gargarismi e gli spruzzi della sua acqua santa, e chissà, ancora oggi dopo cinque anni di repliche, lo possiamo immaginare ad attenderci, ardente nell’impossibilità di “morire”, abbandonando la sua personale dimensione di felicità, lontano dalla terraferma.