Ci troviamo al Circolo Caracol, ambiente fumoso di cui apprezziamo la semplicità. Elsa Bossi, attrice lodigiana che spesso abbiamo visto in scena con il Teatro del Carretto, narra la storia di alcune delle molte donne (dalla raccolta di racconti Le solitarie) generate dalla penna di Ada Negri, sua conterranea che nel corso del secolo scorso ha saputo tratteggiare con maestria una quantità di piccoli scorci sulla condizione femminile novecentesca. L’attrice appare sulla nuda scena (presente solo una sedia) avvolta da un esile fascio di luce, ad accompagnarla il suono registrato del pianoforte di Alberto Braida.
Raimonda è la prima donna a cui l’attrice dà voce: giovane dal bel corpo ma dal volto orribilmente sfregiato, si muove nella nebbia, e senza esser vista si lascia avvicinare e baciare da uno sconosciuto, poco più di un fantasma nella foschia, potendo solo così trovare un seppur lieve sfogo al proprio erotismo. Il racconto si dipana dolcissimo, Raimonda assapora la vita in quell’unico istante. Basta che l’attrice metta al braccio una borsa, si tolga il cappotto, cambi posizione, ed ecco che Raimonda svanisce lasciando il posto ad altre donne.
L’adolescente affamata d’amore facilmente si sovrappone a Rossana, «anima bianca» orribilmente violentata per strada: «tale si rivelò l’amore alla maestra di prima elementare, che aveva l’anima candida d’un bimbo appena nato, e non sapeva d’avere un corpo», magistralmente Bossi recita le terribili ed elegantissime espressioni formulate da Negri. Queste parole fanno rabbrividire, forse per l’uso violento e indiscriminato della parola “amore”, che da questo momento in poi (ma in effetti già nel primo racconto), non potrà disgiungersi da una violenza che le è forse intrinseca, o per lo meno è caratteristica della società in cui nasce. Seguono le storie di Marika, schiacciata dalla gelosia, di una «taciturna» che sopporta senza parlare i tradimenti del marito, di una donna sfregiata dal marito suicida, fiera di portare in volto il segno tangibile della “passione”…
Le molte storie si confondono l’una nell’altra; nonostante la loro assoluta linearità finiscono per accavallarsi nella mente dello spettatore, formando un groviglio in cui le costanti sono perennemente l’amore e la violenza. La solitudine si profila come unica soluzione alla brutalità insita nel rapporto amoroso: l’uomo è vittima di passioni cui non sa dar nome, la sua intelligenza emotiva è appiattita in un terribile machismo, è schiavo di «quell’ira sensuale che rende folli gli uomini troppo robusti», e schiaccia la donna sotto il suo peso, la soffoca in quello che entrambi non sanno non chiamare “amore”. Le solitarie sembrano essere possedute da un masochistico bisogno di legarsi a un compagno-carnefice, i brevi momenti di gioia vengono necessariamente distrutti da problemi interni al nucleo familiare, modello in scala della società italiana dell’epoca.
Nel suo concludersi lo spettacolo cambia tono, la narrazione lineare si interrompe per lasciare spazio alla poesia; musica e parola sono in perfetto accordo: sulle note di When I fall in love (noto standard jazz) l’attrice recita A colui che non è venuto, affascinante poesia di Negri in cui l’io lirico negli ultimi istanti di vita auspica un incontro con un uomo mai trovato. Lo spettacolo si conclude con una nota malinconica e speranzosa al tempo stesso: ci lasciamo alle spalle la rappresentazione di quell’“amore” terribile, che si nutre di violenza reciproca, e non cessiamo di lottare per una realtà più paritaria.