Fuori dal Teatro Sant’Andrea una signora parla, parla di teatro, spiega a chi è con lei quanto il teatro le sia affine e come non ci sia più niente di tanto degno da rubarle gli occhi e infiammarle il cuore. Con fare simile a chi siede su una poltrona mentre si fa la messa in piega, affronta, come chi la sa infinitamente più lunga di altri, grandi temi dell’esistenza teatrale.
Sabrina Iannello, unica interprete di E la bellezza non potrà cessare, esce da una porta secondaria, nessuno la nota. Tacchi alti, cappotto lungo, occhiali da sole. Passeggia, si sofferma, ascolta, passando tra gli spettatori in fila davanti alle porte del teatro; si sofferma, prima di scomparire, anche accanto alla signora citata, che intanto continua a ridersela di gusto pensando a come il pubblico medio, a differenza sua, si trovi a essere impreparato di fronte a un evento teatrale. Fortuna vuole che la donna si plachi quando si rende conto che lo spettacolo è iniziato e lei neanche se ne è accorta.
Il pubblico entra nella chiesa, divenuta luogo di teatro, si accomoda sulle gradinate e attende che la protagonista faccia il suo ingresso. L’attrice entra, annunciata dal suono dei tacchi sul pavimento. In un angolo, in penombra, inizia a spogliarsi. Si toglie le scarpe, il cappello, il cappotto.
Al centro del palco lei, adesso con un vestito tanto rosso da fendere il buio, circondata da tele arrotolate. La messa in scena inizia ad animarsi, il suo corpo si inarca sotto il comando di un invisibile e doloroso pungolo. Come invasa da una forza di cui non si riesce a individuare la forma, Sabrina Iannello danza a ritmo di una musica inesistente. Gli arti si irrigidiscono in movimenti convulsi da bestia braccata, ferita.
Il ritorno a figura umana viene segnato dall’aprirsi della prima tela realizzata dall’artista Sabrina Tacci. Dipinto dopo dipinto prendono forma e forza le parole di Alda Merini, filo rosso dell’intero spettacolo.
La protagonista si muove tra le tele che gradualmente rotolano sul pavimento. Prende le sembianze di uomo, donna, animale, madre, straziando il corpo nell’azione di un simulato parto, nelle violenze inflitte, nel represso desiderio sessuale.
Si gioca su differenti piani, nel ritmo scandito di un corpo febbricitante e in continuo movimento: lo spettacolo tende a esaurirsi, però, su una direttrice caricaturale. Il regista Giovanni Delfino opta per una dimensione quasi deformata di donna sottoposta a una patinatura, presenza ammiccante e quasi svenevole. Iannello si veste e si sveste, dà voce alle figure dipinte, si vende al miglior offerente in un mondo in cui l’uomo sottomette la donna.
L’intensità proposta dal corpo mercificato si stempera nei toni del grottesco che diventa cifra di tutto l’allestimento.
Adornata di un oro di stoffa che le pende dalle braccia e dalle gambe, l’attrice scompare dalla scena. Donna relegata a oggetto ma capace di ribellarsi a questa sua condizione. Così come è entrata esce, lasciando spazio ai dipinti ormai tutti svelati alla platea.
Applausi. Gli spettatori vengono invitati a restare per un confronto. Alla fine, l’ultima scena che ognuno si porta a casa è il ricordo di lei, ancora in bilico tra realtà e finzione che ringrazia il proprio pubblico.