Arriverà, mi chiedo, il giorno in cui Amleto cesserà di ispirare giovani performer sulla via di un’individuazione artistica e professionale; il giorno in cui non sarà più uno stimolo per maturi teatranti già instradati (ma in cerca di un telepass)? Arriverà il giorno in cui, tacitamente, ciascuno deciderà che tutto ciò che si poteva dire e fare a Elsinore è stato detto e fatto, ed è forse meglio riservare alla più nota tragedia shakespeariana unicamente letture private, facendola scomparire, per una generazione almeno, dal repertorio?
Arriverà o non arriverà?
Nell’attesa, il critico o cronista teatrale deve predisporsi con spirito indulgente e piglio bonario a ogni genere di rilettura, adattamento, studio, variazione sul tema e libera interpretazione.
L’ipotesi spettacolare proposta dal collettivo artistico Macelleria Ettore (presentata al Fringe Festival di Napoli nel 2013 e da quel momento cresciuta e maturata) si sostanzia in un testo dalla forte connotazione metateatrale (sai che novità!, si direbbe, volendo esercitare malizia e sfrontatezza) scritto e diretto da Carmen Giordano, e interpretato da Stefano Detassis e Maura Pettorruso.
Due sono le idee drammaturgiche che vi si incrociano, provando a irrobustirsi vicendevolmente. Da una parte ci sono i dubbi e le pesanti responsabilità di Amleto e Ofelia, intrecciati, se non paragonati, all’esperienza di una coppia, con le sue intermittenze, i difetti di comunicazione, le incertezze e gli slanci passionali. Dall’altra la polarità buio/luce, qui elevata a metafora unica, cioè meccanismo centrale dell’intero allestimento. Azioni che non si vedono e stasi visibilissime; silenzi prolungati ed echi rumorosi privati della sorgente: un’oscurità intensa e anch’essa intermittente (nere anche le pareti della nuda stanza, nonché i costumi) apre e chiude le sequenze in cui i due attori, provando il testo shakespeariano, mettono in realtà alla prova se stessi, vale a dire il proprio rapporto.
L’interrogazione sul testo è già nel titolo e va posta a premessa dell’intero lavoro, dichiaratamente privo di risposte. Il problema – questo è il problema – è che nei dialoghi manca quasi del tutto energia, sorpresa, rischio, vibrazioni vocali, e il gioco di rispecchiamenti tra finzione (del personaggio) e realtà (dell’attore) è troppo piatto, sia nella forma che nei contenuti, viziati dall’ombra spessa del “già sentito”: «sono molte le azioni che un uomo può recitare. Ma io ho dentro ciò che non si mostra», dice lui; «tutti questi fantasmi, tutto questo discendere dentro se stessi, e poi? ritorniamo alle nostre azioni quotidiane», dice lei.
L’ultima andata in nero è ovviamente il finale, sospeso, che arriva dopo circa 50 minuti di spettacolo.