“Mi prese del costui piacer sì forte, che come vedi ancor non m’abbandona” o, ancora meglio, “amor ch’a nullo amato amar perdona, porco cane!”, per dirla con Jovanotti: l’orizzonte di riferimento eterno, dal pop dantesco al pop contemporaneo, passando per quello shakespeariano, è costituito dalle pene d’amore, da sempre a braccetto con la musica.
Viola ama Orsino che ama Olivia che a sua volta perde la testa per Cesario che altri non è che la prima en travesti, la quale ha pure un gemello, Sebastiano, la cui presenza consente l’happy ending! Tutti amano e immediatamente diffondono la peste dell’amore. Accanto e in mezzo ai loro sentimenti: parassiti sciocchi e astuti, governanti e maggiordomi, accompagnatori, uomini di mare, soldati e un buffone servitore di più padroni; della bottiglia, della musica, della follia, o forse di nessuno. Dai commediografi latini e da Boccaccio, dagli Accademici Intronati a Matteo Bandello, Shakespeare crea il suo plot ulteriormente condizionato dagli equilibri della propria compagnia.
E Carlo Cecchi?
Cecchi, ormai assiduo frequentatore della commedia – se ne segnala un’edizione pressoché dimenticata del 1991 in occasione dei 750 anni dell’Università di Siena – pare lasciarsi ispirare da immagini poetiche e pittoriche insieme (Baudelaire e Watteau). I riferimenti al pittore della Commedia dell’Arte sono denunciati dalla scena rarefatta di Sergio Tramonti, dal disegno luci di Paolo Manti e dai costumi di Nanà Cecchi, evocativi di un tempo in cui quei tessuti, ora provati dall’uso, sfoggiavano colori vivaci.
Come, sul pavimento di una vecchia casa, fa la polvere al primo spiffero di vento, così agisce questa stilizzazione dello spettacolo, alzandosi quasi impercettibilmente sotto i passi degli attori, invero estremamente plastici, e persistendo – solfiti ora fastidiosi – sugli eccessivi sfiatamenti di Malvolio/Cecchi, vino buono del nostro teatro, che però qui allunga, slava e annacqua molte battute in un lamentoso basso continuo (così non ci era sembrato l’anno scorso a Pistoia).
“Doc” tutti gli altri. Il trio comico è finalmente frizzante: Maria/Piperno, Sir Andrew/Fabiani, Sir Toby/Ferrera sembrano aver trovato l’affiatamento necessario per accattivarsi il pubblico, che a Pisa dialoga splendidamente con la scena. Gli innamorati sono delicati prosecchi: la Contessa Olivia/Ronchi e il Duca Orsino/Stella, in esibito registro naturalistico, trovano equilibrio attraverso l’aroma speziato della recitazione antillusionistica di Viola-Cesario/Costantini.
Completa la carta Feste, il buffone di Dario Iubatti, un moscato aromatico: ambivalente per necessità – constatati i numerosi tagli che privano il personaggio della sua ambiguità – l’attore disarticolato e meccanico nella silhouette di un Totò pulcinellesco, risolve con efficacia quei suoi numeri a metà tra il dispettoso e il bonario, la saggezza e la sbornia.
La musica di Feste aveva aperto lo spettacolo e il quadro finale, circolarmente, richiama le atmosfere dell’inizio: la compagnia, schierata sulla pedana, riprende rotando il suo bal tournoyant e saluta il pubblico intonando un’ultima canzone.