Tra pop-corn e vino rosso gentilmente serviti dall’organizzazione, assistiamo a uno spettacolo che proprio sull’in(di)gestione si basa. Lo spazio Lum in cui ci troviamo è ricavato da una confortevole cantina, per l’occasione gremita di pubblico, mentre da solo in scena vediamo Andrea Mattei dare corpo e voce all’Anna Cappelli di Annibale Ruccello, in un’ora di monologo sostenuto con lodabile naturalezza.
Anna sembra delinearsi attraverso il dialogo con l’altro, conquistando brandelli di personalità attraverso la risposta ricevuta dall’ambiente; s’impossessa dello spazio circostante un palmo alla volta, scontrandosi con l’indifferenza di interlocutori sempre insufficienti. Si delinea presto una dinamica morbosa, nevrotica: non trovando la necessaria risposta umana, Anna sviluppa un profondo attaccamento per gli oggetti. Le cose su cui riversa il suo affetto le vengono però continuamente strappate: la sua camera nella casa dei genitori ha cessato di appartenerle, ceduta alla sorella; d’altro canto l’appartamento in cui adesso abita non è davvero suo perché gestito dalla signora Tavarini, padrona di casa. La frustrazione esplode in momentanei scatti d’ira, annunciati da un forte suono che imita il brontolio di stomaco. Durante queste rotture, Mattei sfrutta il registro basso della voce, venendo meno alla verosimiglianza con il personaggio femminile e creando un’ulteriore frattura, che dona ancora più forza al racconto. Anna quindi si ricompone, recupera la femminea eleganza rientrando a fatica nello spazio del socialmente accettabile.
La narrazione episodica ha una svolta con l’incontro di Tonino, primo personaggio a dimostrare un sincero interesse per la ragazza. Anche lui esiste solo nelle parole della protagonista: intuiamo le sue battute dalla risposta della giovane, ma la conoscenza che ne abbiamo è sempre filtrata. Tutte le energie emotive di Anna, finora mai ricambiate, si incanalano nella relazione: il compagno diventa un simulacro in cui riversare una soggettività instabile, che sa definirsi solo per assimilazione. L’uomo ha però una sua vita che non la comprende e, dopo mesi di convivenza, decide di lasciarla. Per Anna esiste un’unica soluzione: ucciderlo e divorarne il cadavere, facendo sì che il processo assimilatorio superi il piano metaforico.
Fin dall’inizio l’unico oggetto scenico è una grande pentola posta al centro della scena. Durante il monologo, Mattei spoglia il pubblico di alcuni oggetti (uno smartphone, una sciarpa, un paio di occhiali) che butta nella pentola e ridistribuisce poi alle persone sbagliate, provocando qualche risata e un po’ di confusione: lo spasmodico bisogno di possesso ha varcato i confini della narrazione, invadendo la platea. Nel finale la pentola assume significato, e diventa il vero interlocutore di Anna che, nel pieno di un incredibile delirio psicotico, si rivolge al corpo smembrato di Tonino. Capiamo che l’uomo è morto solo dopo qualche minuto. Alla luce del colpo di scena, rileggiamo quindi l’intera vicenda, rendendoci conto che Anna parla allo stesso modo ai vivi e ai morti, e dalle parole altrui carpisce solo ciò che le serve per darsi forma: supplisce alla mancanza di definizione (qui data come condizione implicita dell’essere donna) assorbendo informazioni identitarie da chi la circonda, e, nel farlo, filtra la soggettività altrui, spremendone frammenti che le garantiscano stabilità. Scoprire che l’altro è un soggetto a sé stante, capace di scelte che non rispecchiano l’immagine che abbiamo di lui, è in quest’ottica semplicemente insopportabile.
Meritatissimi applausi.