Lo abbiamo dichiarato altre volte, lo ribadiamo: avvicinarsi a un nuovo lavoro di Antonio Rezza e Flavia Mastrella è sempre un’operazione rischiosa. Gli spettacoli (mai) scritti (la parentesi è un consueto vezzo dei due, non privo di ragioni) da questa coppia terribile del nostro teatro sono oggetti sfuggenti, mercuriali, sempre stratificati, altamente insidiosi. La probabilità d’equivocare è massima, anzi certa; in prima istanza per il pubblico, capro mai a caso espiatorio dei primi allestimenti, cavia e vittima d’un repertorio giunto al ragguardevole traguardo del settimo titolo. Ancor peggio va a quel banalino di coda che è il critico, lo spettatore che scrive, l’intruso alla cerca di letti altrui (lo diceva Carmelo Bene, criptocitando alla sua maniera Léon Bloy), colui che, svolta la visione, si trova nell’incresciosa necessità di riferir quanto in scena percepito, con tanto d’auspicabile gemmazione riflessiva.
Anelante è un dispositivo giocato su potenza, sommatoria, moltiplicazione. Vi si ritrova, certo, il Rezza mattattore, performer dissennatissimo, a far strame di sé e della propria macilenta fisicità, forzare in slogatura la logica del discorso sino all’ostentata lussazione di quel che si può fare in teatro. Culi (son molti, lo diremo) al vento, sodomie rituali in odor santità, la protratta sfida al dicibile, all’insopportabile buon senso comune (non si risparmia il concomitante Family Day), la sciente impertinenza che costituisce una delle massime corde dell’artista, forse la più evidente, non la principale. Al contempo, quanto acquisito negli episodi precedenti (l’andamento paratattico a numeri conchiusi stretti in una drammaturgia elusiva e obliqua) subisce una purificazione chimica, una distillazione, alla stregua d’un superalcolico reso più forte e pungente.
L’ambiente elaborato da Flavia Mastrella ha un che d’animale e, per paradosso, asettico: le nere zebrature solcanti in perpendicolare i pannelli della struttura di fondo, un teatrino con finestrelle da cui occhieggeranno indistintamente volti, arti o deretani, conferiscono al colpo d’occhio un’aura d’estrema compostezza pittorica, nonostante la parziale irregolarità delle strisce, pure riprese nell’antistante pavimentazione. Rezza non abita lo spazio come in passato: è quest’ultimo a prender vita, animarsi come essere a sé stante, paradossale concrezione organica dotata, a tratti, di membra, piedi, gambe e braccia avvolgenti.
Il discorso scenico s’amplifica nella molteplicità, calviniano tratto distintivo dell’apparato spettacolare: il brutt’Antonio suona, in apparenza, da solista; gli fa eco l’esattissimo ensemble di quattro elementi (in ordine alfabetico: Ivan Bellavista, Enzo Di Norscia, Manolo Muoio, Chiara Perrini), voci e corpi piegati e dispiegati in sequenze coreutiche impressionanti per acuto rigore. I sintagmi pseudonarrativi (coi grandi della terra a pellegrinar tra Londra e KauKaso) s’estenuano, consentendo sperimentazioni inedite, come l’approdo a una dimensione quasi musicale, quando grida e percosse paiono innescare un’autentica partitura ritmata. È il tutto a funzionare, di questa abnorme e impensabile struttura bestiale, inumana, eppure anelante a un’ineffabile dimensione soprana, un’aspirazione al superamento, di sé e del mondo.
Impossibile, al primo acchito, coglier tutte le minute sfumature dei lavori a firma RezzaMastrella: opere d’arte complesse, inesaurite, presumono sguardi reiterati, nel dipanarsi dei (non) sensi, nel baluginante luccicare (come per la bella sequenza conclusiva, svolta a lume di lampada) di qualcosa che mai si riesca a capire (càpere, che significa con-tenere) per intero. Si resta con la mandibola sfiancata dal riso (benché meno rispetto ad altre occasioni), la mente risonante di suggestioni, e pure una qualche sensazione algida per un allestimento quasi apollineo, degno epilogo per la trilogia matematica composta da 7-14-21-28 e Fratto_X. Solo sguardi ulteriori (auspicati e consigliati) potranno darci conferma o scoprirci vittime dell’ennesimo depistaggio da parte del (citiamoci addosso, ma per trasparenza) più grande performer vivente e della sua visionaria compagna d’arte.