Le ripide gradinate del Teatro Fabbricone di Prato sembrano voler catapultare lo spettatore proprio lì, sul palco, in mezzo ai cinque attori che stanno per dare vita all’Antigone, tragedia greca (ri)tradotta, adattata e diretta da Massimiliano Civica.
Dalla muta oscurità si leva un grido bestiale.
Nello scenario a dir poco minimale risalta immediatamente, sul pavimento nero, il rigoroso disegno luci di Gianni Straropoli: un rettangolo luminoso riproduce in scala ridotta il palcoscenico e definisce il perimetro entro il quale gli attori, indossata la maschera, divengono personaggi. Soluzione ingegnosa per delimitare uno spazio altrimenti dispersivo, ma forse statica, a cristallizzare un ambiente senza accompagnare le dinamiche della vicenda. Nascosti dalla penombra, siedono Oscar De Summa, Monica Demuru, Monica Piseddu, Francesco Rotelli e Marcello Sambati, burattini in attesa della scintilla che li farà alzare ed entrare in scena; infine, accasciato a lato del rettangolo, rischiarato in base alle necessità narrative, un fantoccio con la divisa nazi-fascista.
Si levano Demuru e Piseddu, rispettivamente nei raffinati abiti novecenteschi di Ismene e Antigone, le due sorelle figlie di Edipo e nipoti di Creonte (Oscar De Summa), nuovo re di Tebe raffigurato come un capo partigiano. Il sin troppo serrato dialogo tra le due spiega il seme da cui matura la tragedia: Creonte ha onorato della sepoltura uno dei loro due fratelli, Eteocle, mentre ha dichiarato indegno l’altro, Polinice, ordinando di lasciarlo illacrimato e insepolto. La decisione del sovrano doveva risultare del tutto logica: Polinice è colpevole di tradimento e sacrilegio, avendo cercato di conquistare Tebe in alleanza con la città di Argo (come riportato in I sette contro Tebe di Eschilo) mentre Eteocle, lancia alla mano, ha difeso le mura. Antigone però vede nei due rivali i suoi fratelli, uguali al cospetto della morte, e decide, pur contro la lucida ragionevolezza della sorella, di seppellire Polinice, il fantoccio.
L’intento di Civica sembra essere non tanto quello di trovare una soluzione definitiva alla querelle su chi abbia ragione tra Antigone e Creonte, ma piuttosto di astrarre la tragedia dalle più varie e marcate interpretazioni critiche proposte nei secoli, riportandola il più vicino possibile al suo archetipo. In questo senso, la scelta dei costumi, che di fatto colloca la vicenda durante la caduta del fascismo, non vuole essere un’attualizzazione, bensì un tentativo di far comprendere al pubblico dei nostri giorni l’atmosfera che la tragedia, svolgendosi al termine di una guerra civile, doveva suscitare all’epoca della sua composizione. Se, però, tale operazione costruisce il contesto, il nero fascista e il rosso partigiano, di fatto, sottendono un giudizio politico e morale che Civica – ci spiega nel dettagliatissimo programma di sala – vorrebbe estromettere dal suo adattamento.
Ne emerge uno spettacolo che, nella sua asciuttezza, cela un mirabile lavoro sul testo (restituendo una traduzione fedele all’originale tanto nel vocabolario quanto nella musicalità) e che si sforza di portare sulla scena quel δεινός (deinòs), quel “qualcosa di prodigioso” tanto in positivo quanto in negativo, che è l’animo umano con i suoi spigoli e le sue debolezze. Si spengono le luci su un Creonte in preda alla più totale disperazione, un poco meno credibile rispetto all’interpretazione vigorosa che De Summa offre per la precedente ora e mezzo.
Applausi convinti in sala.