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Otto figure assise su una sbarra calata dall’alto. Calzoni scuri, maglie che richiamano le divise di Star Trek (sei colori, anziché tre). Epifania metafisica, dai contorni pirandelliani, à la maniera d’un Latini (ne applaudimmo i Giganti della montagna) che per tutto lo spettacolo è presenza/assenza muta, spirito aleggiante ai margini della recita: è un Brancaleone depurato di grottesco quanto di cappa e spada, questa possente macchina teatrale, scatola scura i cui soli arredi sono una muta e incrostata parete bianca di fondo, la sbarra, che ora va, ora viene, e alcune geometrie solide basilari, come il grande pallone bianco, figura lunare di sicura efficacia. Le luci di Max Mugnai fanno l’ambiente, definendone tratti e funzioni, in consolidato affiatamento con le musiche e i paesaggi sonori di Gianluca Misiti, da sempre co-artefici del teatrante romano.
Della pellicola restano i gusci semivuoti delle parole, e la sequenza degli episodi, con scelte di cast sorprendenti quanto felici: sotto la bruna zazzera scarmigliata del protagonista, Elena Bucci nel personaggio che fu di Vittorio Gassman, versione misurata, ma non dimessa, sin dalle prime battute nel maldestro controllo del (mal)destriero Aquilante offerto da Francesco Pennacchia (lo ricordiamo attore morgantiano). Savino Paparella rende un impressionante calco sonoro di Abacuc, mentre Ciro Masella è… l’intera armata: trascorre, senza soluzione di continuità, da Taccone a Mangoldo sino a Pecoro, il tutto con la semplice (!) increspatura di corpo e voce. Marco Sgrosso è un allucinatissimo e smagliante Zenone, Marco Vergani un Teofilatto discostato dall’originale di Volonté, Claudia Marsicano un’altra interprete multifunzionale, perfettamente in bolla tra presenza fisica e prestazione vocale. Ai lati-sopra-sotto quest’efficacissima compagnia, lui, l’uomo in nero, parrucca paglierina, bastone, cappello: spunta, sbuca, occhieggia, figura umbratile stagliata sul fondale quando la musica si fa ritmata.
Spettacolo strano, questo Brancaleone: ricorda l’Ubu Roi di anni addietro (capolavoro indimenticabile), sia per il cast sia per il peculiare ruolo che Latini si riserva, come un inciso jazz, variazione sul tema insinuata nel quadro, modificandone poeticamente equilibri ed esiti. A Jarry, s’affiancava l’incipit sospeso dei primati e la figura di Pinocchio; qui, al richiamo trekker s’aggiunge la misteriosa, afasica entità in nero: soltanto in fondo profferisce motto, a chiuder la commedia. Declama un testo denso, anaforico, quasi un Dino Campana, sino alla frattura che è, anch’essa, citazione risonante: il «Bravo… Grazie!» innescato da Bucci, reminiscenza petroliniana, evocazione d’un nume tutelare di tanto nostro teatro (più Bene che Proietti), a interrompere, sospendere, congelare il Branca, Branca, Branca… che segna la fine.
Molti i fili tirati dalla visione d’un ordito tanto complesso, che in 80’ ha il pregio di ipnotizzare la sala: se l’Ubu era macchina perfetta (anche) grazie alla natura teatrale del testo sorgente, qui, il rapporto con la fonte è vischioso. L’impressione è di un’opera (il film) messa “al servizio” della poetica dell’artista, anziché d’un coagulo tra quest’ultima e la natura intima del testo (latu senso) tradotto in scena. Dai cinema, all’epoca, uscivano ridendo, imitando la lingua brancaleonesca; dal teatro, si esce ammirati per un lavoro egregio, che individua e amplifica la natura absurdista del picaresco originale, scansandone (scientemente) la dimensione pop-popolare, scelta sulla cui liceità si può discutere, e discutiamo.
Applausi, comunque, a josa, e fischi inviperiti per un sistema teatrale incapace di recepire in distribuzione un lavoro come questo, “condannandolo” ad appena nove repliche.