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Colmi di quella soddisfazione che solo l’aver trovato parcheggio a Firenze al primo tentativo può regalare, prendiamo posto nel piacevolmente affollato Teatro Cantiere Florida. Sara Bonaventura, Claudio Cirri, Lorenza Guerrini, Daniele Pennati e Giulio Santolini, membri del collettivo di ricerca teatrale Sotterraneo, accedono al palco da una porta laterale, uno alla volta e scrutando i dintorni. A mo’ di presentazione dei personaggi nei titoli di testa di un film le prime parole intraducibili proiettate sullo schermo appeso al centro della scena, sottotitolano un qualche tratto peculiare degli attori che, zaino in spalla, scarponi ai piedi e tende alla mano, si distribuiscono sulla scena.
Bonaventura prende il centro del palco e spiega brevemente come è iniziato Atlante linguistico della Pangea: nel pieno del primo lockdown, tra cori sui balconi e panificati di varie forme, il collettivo fiorentino si imbatte nella lettura di Lost in translation. Incuriositi e temporaneamente disoccupati, i Sotterraneo decidono di contattare i parlanti delle lingue a cui afferiscono le parole impossibili da tradurre, se non con lunghe perifrasi, illustrate nel volumetto di Ella Frances Sanders. La ricerca che ne emerge, prima di approdare alla forma teatrale, passa per la miniserie Dizionario illustrato della Pangea presente sul canale YouTube di emiliaromagnateatro.
L’intelaiatura dello spettacolo, ridotta al minimo, è semplice: la parola interroga e la scena traduce. Utilizzando gli oggetti presi dagli zaini da trekking, il gruppo si dispone sul palco costruendo piccoli contesti per il vocabolo di turno: miniature silenziose, quadri animati patetici e vivaci, strisce comiche à la Charlie Brown ora si avvicendano, da un angolo all’altro della scatola scenica, ora si scontrano e rimescolano al centro. Non mancano le parole dei parlanti nativi contattati dalla compagnia i quali, mediante brevi registrazioni video, con voce divertita, tra l’incantato e l’incantevole, colmano la distanza tra significante e significato, tra concetto astratto e utilizzo pratico.
Al netto di un’idea di partenza brillante, si ha l’impressione che questo Atlante linguistico abbia ancora margine sia per contrarsi sia per dilatarsi, cristallizzarsi in una icastica critica politico-sociale o acquisire maggiore densità narrativa o, ancora, sciogliersi in una dolceamara lettera d’amore per il linguaggio. Uno spettacolo che non manca di coinvolgere e meravigliare, ben sostenuto dai cinque attori, che si dimostrano sia pronti a pizzicare lo spettatore scivolando con naturalezza oltre la quarta parete sia abili nelle numerose scene coreografiche e collegiali.
Due momenti concerto sospendono la narrazione. Nel primo, sotto fredde luci taglienti, risuona Toxicity (System of a Down) a soppesare tutte quelle parole il cui significato ci grava sulle spalle e nell’altro, In a manner of speaking (Tuxedomoon) si accorda con morbide immagini, a soffiare via tutti quei modi d’esprimersi teneri e accoglienti che, e qui prendo a prestito da un altro libro che è un minimo glossario emotivo di persiano, «già solo la parola è un pulcino».
Infine, l’elemento giocoso si attenua e affiora un soffocante senso di resa.
Chiude lo spettacolo un fiume di parole inevitabilmente intraducibili. Il gruppo si stringe sul proscenio. I Sotterraneo si fanno megafono per la voce registrata dell’ultima parlante di una lingua ormai morta, un’anzianissima donna a cui regalano finalmente risposta in una conversazione vivida e tuttavia irrealizzabile. Una conclusione (troppo) breve, ma sufficientemente d’impatto, che trasla l’ora di messinscena in una dimensione di critica verso la mancata tutela della varietà linguistica e di vaga malinconia e irrequietezza per la pur sempre naturale e inevitabile perdita di parole e linguaggi.