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Palco nudo, sul fondo uno schermo bianco in attesa di proiezione. I protagonisti entrano uno a uno, in silenzio. In spalla coloratissimi zainoni da trekking, mascherina sul volto e abiti da viaggio. Le scarpe paiono adatte al cammino, ma sono dichiaratamente sceniche: suole a carroarmato bianchissime, mai state su strada, tomaie flessibili di colori naturali ma inadatte a qualsiasi tipo di intemperie. È chiaro che si indossano per la voglia di un viaggio: Atlante linguistico della Pangea, infatti, nasce e cresce durante il lockdown del 2020 e ne conserva i segni fino in scena.
Ciascuno dei viaggiatori, al suo ingresso, viene presentato da una parola non italiana, proiettata sullo schermo assieme alla sua traduzione: arranca il maldestro portatore di una Kabelsalat (tedesco: groviglio di cavi) per un microfono; entra lo Shlimazel (yiddish: il perseguitato dalla sfortuna) a cui continua a scivolare per terra il tappetino da viaggio; compare un Layogenic (tagalog: persona attraente solo se vista da lontano) che cerca la miglior posizione… gli accostamenti persona-parola divertono, si ride e si entra in sintonia con significati finora ignoti attraverso la strada corta (sebbene non scontata) della simpatia (“sentire con”).
Durante il lockdown, dicevamo, Sotterraneo ha viaggiato a suo modo, complice lo spunto di un libro dedicato alle “parole intraducibili” che qui diventano canovaccio per un’azione scenica sempre corale: i termini sulle diapositive commentano, anticipano, collegano la sequenza di gag, danze, azioni che ci che porta tra i branchi di renne in Finlandia, dentro un concerto rock grottesco e disperato, fino in Giappone in vena di tenerezze, in direzione di Marte scrivendo una lettera a Elon Musk… La traduzione scenica delle parole è fisica, potente e divertita, prende il pubblico, è la cifra più efficace dello spettacolo, à la Sotterraneo.
Ma, peccato, si cala di qualche tacca quando lo spettacolo si vuol fare reportage di linguistica applicata, di antropologia culturale: talvolta, infatti, l’azione s’arresta e a una nuova diapositiva segue un breve video sottotitolato in italiano, in cui un parlante nativo spiega il senso della parola in questione, condividendo (attraverso un inglese veicolare, koiné imprescindibile d’oggi) piccoli spaccati di cultura locale, narrazioni, confidenze che rendono possibile comprendere ciò che quella lingua ha isolato e reso perspicuo con una sola parola. È chiaro allora che le parole intraducibili sono comprensibilissime, solo che ci sia un mutuo intento di spiegarsi e di voler capire: fatto non banale, ma forse premessa già condivisa, così che lo spettacolo rischia di aggiungere poco, se non qualche “non tutti sanno che…” al bagaglio culturale ed emotivo di chi assiste. Sul finire, un momento di mestizia, un poco telefonata, nel dare corpo all’osservazione che muoiono, le lingue, se muoiono le persone che le parlano, e assieme muoiono le loro culture, tradizioni, prospettive.
Dopo i lunghi e meritati applausi, segno anche dell’entusiasmo e sollievo di ritrovarsi a teatro in una sala capiente al 100%, i componenti di Sotterraneo tornano sul palco sedendosi zitti al centro della scena, commiato in presenza al pubblico che se ne esce: e a chi scrive, come ogni volta dopo un buono spettacolo, resta addosso un po’di Hiraeth, nostalgia di un posto dove non puoi più tornare.
P.S. – A proposito di “non tutti sanno che…”: un atlante linguistico delle terre emerse esiste davvero e si chiama WALS (World Atlas of Language Structures). Punto di riferimento per la comunità accademica dei linguisti, non è però un dizionario, ma descrive e confronta strutture e proprietà delle lingue del mondo.