Il piccolo teatro Francesco Di Bartolo di Buti si affolla quasi consapevole dell’evento che sta per consumarsi. C’è qualcosa che il pubblico già sa essere interessante, qualcosa che lo attrae nonostante la fredda e uggiosa serata. Ci scusiamo per il disagio del gruppo Gli Omini sta per andare in scena: siamo in una stazione, quella di Pistoia forse.
In primo piano la panchina del binario, sul fondo, a sinistra, la luce rossa che richiama la carrozza del convoglio appena partito, la prospettiva data dalle lampadine a filamento disposte in basso sia a destra sia a sinistra, la cui luminosità viene potenziata o ridotta. Sul proscenio, il megafono che propagherà quell’anonima metallica voce, solo in principio indifferente alle vicende umane che si consumano sotto il suo occhio di metallo.
Lo spaccato di umanità si incarna nei tre attori Francesco Rotelli, Francesca Sarteanesi e Luca Zacchini (allo script partecipa anche Giulia Zacchini) e nell’interlocutore senza volto: la “voce” della stazione. L’interazione tra essi giunge inaspettata dopo una serie di annunci standard, con l’ilare sorpresa collettiva che non può mancare.
Ciascuno è solo, a suo modo, e cerca o subisce l’incontro con l’altro nell’attraversare lo spazio comune del binario, una sorta di duello da Far West, evocato dalla melodia di Morricone canticchiata in principio, con chi non prenderà mai il treno perché si trova lì per qualcos’altro. C’è il vecchio settantenne che alla stazione ha fatto il marchettaro, o quello che ha “pomiciato” le carrozze tutta la vita, rimuovendo la vernice con la pietra pomice, e ora non può che osservarle scorrere, la donna frustrata dalle delusione amorose che sommerge con la propria logorrea i casuali compagni d’attesa, chi prova ad attaccar bottone senza successo, chi s’ostina ad ascoltare nonostante un apparecchio acustico non più funzionante.
Il parlato è scandito da sfumature, accenti dialettali e il passaggio estemporaneo da un soggetto all’altro non smette di stupire ogni volta. La strategia è quella del paradosso tra lo squallore e l’amarezza di misere esistenze avvolte dalla solitudine, semplici, comuni e anonime vite raffigurate con l’inevitabile, ma umanissima, ironia che strappa riso e lacrime al pubblico.
La finzione teatrale si rivela nella partecipazione coerente della voce metallica della stazione, che spazia, compiendo pure citazioni cinematografiche. Anonima e familiare, interrompe, commenta, stravolge, “penetra” nella vita degli inconsapevoli personaggi e, soprattutto, non smette di ricordarci di “essere a teatro”, talvolta in modo sin troppo cabarettistico. La stessa melodia canticchiata, ma questa volta in versione strumentale, inonda la sala come una colonna sonora finale accompagnando la sfida tra i personaggi. Così, i treni e i loro potenziali passeggeri passano sotto i nostri occhi, sul palcoscenico come nella vita, e forse, tra di essi, c’era anche uno di noi.