Viene da pensare, dopo aver visto I duellanti, che probabilmente sarebbe molto più interessante parlare d’altro.
Ma, considerato che sarebbe poco garbato liquidare la faccenda come un laconico Fiabeschi con un:« I Duellanti, regia di Alessio Boni, musiche di Luca d’Alberto», è giusto procedere a un’analisi leggermente più approfondita.
In scena, tra due strutture in ferro simili a ponteggi di cantiere, Boni e Marcello Prayer, il primo soldato ferito, l’altro dottore intento a ricucire. Perdendosi in chiacchiere, il dottore, sordo alla traboccante agonia del suo paziente, inizia a raccontare la vicenda di coloro che fecero del duello una ragione di vita.
Da qui in avanti prende corpo la storia narrata da Joseph Conrad e, abbandonando le vesti di medico e ferito, fanno il loro ingresso sulla scena Armand D’Hubert (Boni) e Gabriel Florian Feraud (Prayer).
Pochi minuti e i personaggi tanto grandi narrati dallo scrittore polacco si snaturano e si deformano divenendo caricature dedite più a scaramucce inacidite che alla salvaguardia del proprio onore. Si salta da un duello all’altro con semplicità e, forse per colpa nella smania di voler restituire l’appetito insaziabile dell’orgoglio, si getta via il testo. Il pubblico viene “imboccato” con tale pedanteria che, ben presto, la storia perde sostanza. Le parole di Conrad sbiadiscono, così come sbiadisce il concetto stesso di duello. L’inseguirsi attraverso gli anni con la fame feroce di saldare i conti, il pretendere la vendetta per l’onore ferito, il desiderio bruciante di cercare lo scontro per vedere le vesti del nemico imbrattarsi di sangue: niente di questo riesce a sopravvivere.
Boni, insieme a Prayer, a Francesco Niccolini e a Roberto Aldorasi, interviene sulla drammaturgia, taglia e cuce, dando uno spazio forse troppo grande a intermezzi comico-grotteschi con la probabile volontà di alleggerire una storia che, per come viene gestita, sembra già sufficientemente leggera.
Lo stesso duello in Slesia, che nel testo originale vede Feraud e D’Hubert separati dai commilitoni, viene svenduto in favore di una sequenza in cui i due attori protagonisti lottano al ralenti per poi dividersi con uno scambio di caustiche battute.
Decisamente poco convincente risulta la stessa discussione tra un D’Hubert ormai invecchiato, decadente e sconvolto dal dubbio riguardo la propria giovane moglie, e il vecchio zio che entra in scena accomodato in una vasca da bagno, avvolto dal vapore e in compagnia di un muto e statuario servitore.
Fa riflettere, infine, che l’ultima battuta pronunciata da D’Hubert rivolgendosi a Feraud al termine dell’ultimo duello, fondamentale quanto suggestiva nel testo di Conrad, abbia provocato un impulso di riso nel pubblico.
Chi scrive si domanda, senza la presunzione di possedere una risposta, se forse Conrad abbia bisogno, per essere reso al meglio, di qualcosa in più o in meno, oltre ad alcune divise militari e un paio di spade.