Dopo trent’anni Peter Brook riporta il “suo” Mahābhārata, il più noto poema epico indiano, in una nuova versione adatta alla scena contemporanea dal titolo Battlefield (campo di battaglia), con una riduzione evidente rispetto al 1986: da 9 ore a 65 minuti. I ritmi frenetici di oggi ci portano a continui riassunti, compressioni, e questo adattamento risulta ottimale per una fruizione chiara e senza cedimenti.
Ci troviamo nella parte del poema in cui, appena terminata la battaglia, i protagonisti delle due opposte fazioni si confrontano su ciò che è avvenuto, sulle conseguenti re(l)azioni al massacro e sull’ascesa al trono di Yudhishthira.
Il palco è completamente vuoto con una struttura di quinte alla tedesca, dove in zona fondale sono appoggiate canne di bamboo, qualche seduta grigia sparsa e teli colorati a (ri)creare la calda ambientazione dei paesi del testo originario. Quattro attori si alternano, in pose fisse, statiche, che mutano a ogni cambio scena, quando la musica, suonata dal vivo da Toshi Tsuchitori con un djembe, si fa più incalzante e le luci, in contrappunto, si affievoliscono sino a una soffice penombra. L’azione si svolge interamente sul proscenio (con l’eccezione di un ingresso dal fondale da parte di Dhritarashtra), come un tableau vivant in cui la narrazione è agita dalla voce degli attori. Si rimane affascinati dalle parole scandite ed espressive, una recitazione fatta di voce e occhi (lucidi, emozionati per ciò che avviene, elemento attoriale riservato, però, agli spettatori più prossimi), mentre il corpo resta ingessato in gesti contenuti.
Parlano in un inglese comprensibile anche per i meno fortunati che, vicini alla scena, non possono leggere i sopratitoli posti sull’arco scenico (a meno che non siano allievi di Joseph Pilates, contorsionisti o incoscienti dal torcicollo assicurato). Le luci si limitano a semplici piazzati che non coinvolgono tutta la scena, cosa che stupisce date le quattro americane in bella vista con una moltitudine di proiettori da far invidia a un concerto dei Muse. Ci si può domandare quale sia il motivo per cui sia stato scelto un palco tanto imponente come quello della Pergola, per un allestimento forse più adatto al “consorziato” Teatro Era o al non distante Teatro Studio di Scandicci. La risposta è probabilmente nella sala colma di persone, tra le quali spiccano giovani e stranieri invitati dal grande nome del regista.
Nel complesso si ha l’impressione di una performance retta dalla straordinaria bravura degli attori, capaci di narrare vicende e avvenimenti con una forte credibilità. Il “tocco” registico di Brook si percepisce in alcuni micro-accorgimenti, come i due semplici bastoncini di bamboo utilizzati come braccia di una bilancia su cui il re misura la propria carne in confronto al peso di un piccione, o la simulazione di un verme che striscia, un attore con un piede sopra un drappo rosso che, tirando il telo sottostante, tenta invano di spostarsi. Il racconto sacro, a tratti ampolloso, si mesce con leggende e aneddoti che donano alla drammaticità dell’evento una verve ironica. È in queste “pause narrative” che gli artisti rivelano i propri tratti brillanti, e non manca neppure, sul finire, un’interazione diretta con il pubblico a scatenare una contagiosa risata.
La rappresentazione è godibile nella sua interezza, ma se dovessimo premere il tasto mute all’intera opera, la sensazione sarebbe forse quella di un piccolo presepe in un’enorme grotta, e per giunta senza la sua stella cometa.