Dinanzi all’accostamento tra le parole Dolce e Vita, i pensieri vagano: le associazioni vanno dalla via Vittorio Veneto di Fellini al maglioncino a collo alto, dai Matia Bazar di Vacanze Romane alla silhouette di una donna in forma. Per chi scrive, dall’11 dicembre, si tratta anche del titolo di uno degli spettacoli (firmato dal regista e coreografo Virgilio Sieni) più interessanti del 2015.
In cinque capitoli, scanditi dalle didascalie realizzate in scena dai danzatori mediante dei cartelli (Annuncio, Crocifissione, Deposizione, Sepoltura, Resurrezione), si ripercorre la vita e la passione di Cristo. Un allestimento che si sposa e va di pari passo con la mostra fiorentina Bellezza Divina. Tra Van Gogh, Chagall e Fontana, a Palazzo Strozzi, che, attraverso un centinaio di opere, prova a sviscerare il rapporto che lega arte e sacro tra Ottocento e metà Novecento.
Sieni realizza un contrappunto scenico, una riflessione coreografica sull’iconografia del sacro e, come un demiurgico pittore, plasma sulla tela del palcoscenico i propri performer in un amalgama coreutico dai mille influssi artistici.
Ad aspettare il pubblico nello spazio vuoto (non è presente una scenografia, solo oggetti “alla bisogna”) è un angelo, sul fondale, che ci osserva dalla penombra. Notiamo la fissità del suo volto causata dalla maschera che è costretto a indossare. Faticosamente, strusciando arto dopo arto, si avvicina in una continua sofferenza, anche le ali sono ormai una croce spiumata sul dorso: troppi gli annunci da lui pronunciati; non ce la fa più a vestire i medesimi abiti.
Si ha come la sensazione che dipinti come la Deposizione di Chagall prendano vita: i corpi dei danzatori si scompongono in pezzi, frantumano la loro essenza per divenire getto di tempera su tela. Si rimane affascinati dalla potenza iconografica: da Van Gogh a Millet, a Guttuso, la storia dell’arte sembra mostrarsi agli occhi dello spettatore. Non mere copie, ma rivisitazioni realistiche, dove dei semplici coni, che potrebbero ricordare il celebre cappello di Pinocchio, diventano chiodi appuntiti da infliggere sul corpo di Cristo.
I cavalletti sui quali si adagiano i corpi dei performer geometrizzano le figure che compongono la Deposizione (nonostante non sia del periodo preso in esame dalla mostra, il pensiero va al capolavoro di Rosso Fiorentino visibile a Volterra). L’immagine che associamo ai momenti della passione si trasforma in gesto, fluido e instabile. La segmentazione del movimento rende l’intera scena alienante, si soffre e si suda con gli artisti, pur rimanendo comodamente seduti sugli spalti. Un’afflizione psicologica, che non si lega assolutamente alla religiosità dello spettatore, ma procura un pathos onnipresente e visceralmente vivo.
C’è una colonna sonora, quasi impercettibile: rileviamo suoni ovattati, ma non ne riconosciamo l’origine. Molto più forti e sovrastanti i respiri, gli affanni, gli spasmi. E neppure un gruppo di pagliacci (i volti dei performer truccati da clown) riesce a strapparci un sorriso: le teste si scuotono da destra a sinistra in una sequenza rapida, il nostro sguardo non riesce a restar loro dietro e, quindi, assistiamo a delle rapide scie di bocche e occhi che, di primo acchito, ricordano certi studi futuristi sul movimento.
Applausi come se piovesse a riscaldare la fredda sofferenza di Dolce Vita.