Loro sono di Verona e il pubblico in sala al Teatro Nuovo è affiliato, è amico, è pronto a scatenarsi per i Babilonia Teatri. Valeria Raimondi entra in scena come la “migliore” Alessandra Amoroso – vestitino in tulle rosa con giacca di jeans – incitando la sua claque con «Ciao Veronaaaa». I fan in delirio – non stiamo scherzando – applaudono e iniziano a muovere la testa sulle note di una canzone che, sì, potrebbe aver scritto Tommaso Paradiso (ex frontman dei The giornalisti). La voce di Raimondi è acuta, riecheggia lo stile di Cristina D’Avena con qualche graffio alla Nannini. Tiene il suo “gelato” ben stretto a sé e non se ne distaccherà mai, poiché canterà, per buona parte dello spettacolo, brani inediti e scritti per l’occasione: più che accompagnamento, sono veri e propri intervalli tra una scena e l’altra, puri intermezzi di musica pop.
Le scene sono, invece, affidate al compagno Enrico Castellani, paroliere più che drammaturgo, di testi che si affastellano e infilzano voci una dietro l’altra per un collier-dizionario, alla stregua di una canzone di Jovanotti. L’intento è di descrivere il contemporaneo, un mondo troppo veloce per soffermarsi su un’unica tematica, che scivola via verso un’altra e poi un’altra ancora. È uno spettacolo social in cui la canzone scimmiottata a diva pop, si mescola al racconto reiterato dove, davvero, come canta un gruppo di Alpini – saliti sul palco a fine spettacolo – «serve un metro per misurare sono rimasto senza unità». Non c’è drammaturgia, le scene stanno insieme così per gioco, così per divertimento, il fine è scaturire il riso e in parte una riflessione. Interessante, a questo proposito, la considerazione dei terroristi come uomini di spettacolo: sono i migliori ufficio stampa presenti in circolazione, non hanno eguali per l’organizzazione di eventi, le loro regie sono studiate in ogni singolo dettaglio.
Lo spettacolo vuole dare un calcinculo ai cliché del teatro, alla cultura, alle sovrastrutture, ma ciò che emerge è una sarabanda confusionaria, il cui direttore di scena (Castellani) non tiene le redini e la sua controparte (Raimondi) canta felice. «All you can eat» si cita nello spettacolo, ed è un po’ l’idea che si ha di quello che stiamo vedendo: puoi o accontentarti di tutto quello che ti offrono, cogliendo alcune citazioni interessanti, oppure esserne troppo sazio e capire che in fondo questo tipo di teatro può (rap)presentare qualsiasi cosa. Si intende, in quest’ultimo senso, veramente tutto: una sfilata con i cani (entrano 8 cuccioli, accompagnati dai loro padroni, dal fondo della sala per una passerella veloce) o il coro degli alpini di Legnago che intonano l’ultima canzone nonsense.
Il palco è vuoto se non per qualche oggetto simbolo: una seggiolina che scende dall’alto a indicare la celebre giostra calcinculo e qualche bandiera rossa (su cui svetta l’immagine del leone veneziano) issata su estintori. È un luna park di maschere e personaggi quotidiani che si (s)mostra in maniera velocissima al tempo di un click. Sono tanti gli spettacoli che oggi vedono attori e performer urlare a microfoni gelato, segmenti di vita sottoforma di elenco, forse per smuovere un sentimento, forse per rendere palese un disagio; ciò che emerge è un caos fuori e dentro.
Ci viene così da citare anche noi del pop, perché tutto ci pare «Safari dentro la mia testa, ci son più bestie che nella foresta». E oggi il teatro è urlato e un po’ così.