Con le due recite di Calendar girls, il Teatro Verdi di Pisa prosegue la sua stagione registrando l’ennesimo sold out: indice di un cartellone capace spesso di intercettare i gusti del pubblico (un merito indipendente dalle valutazioni su cosa piaccia a una certa parte della platea).
Lo spettacolo è tratto dall’omonimo film inglese diretto da Nigel Cole, commedia del 2003 su testo di Tim Firth, a cui sono seguite numerose trasposizioni teatrali. Un gruppo di amiche si riunisce nella sede locale del Women’s Institute (probabilmente il corrispettivo femminile dei club da gentiluomini inglesi): assistono a conferenze sui benefici del broccolo, preparano composta di prugne o cucinano torte. Uno spasso. La morte per leucemia del marito di una è il pretesto per rovesciare la noiosa routine imposta dalla direttrice (Elsa Bossi), antagonista naturale della protagonista Chris, interpretata da Angela Finocchiaro. Proprio quest’ultima propone di posare in fotografie di nudo artistico per un calendario con cui finanziare un’opera di beneficenza in memoria dell’estinto.
La vicenda si svolge su un arco temporale di quasi un anno: lo scorrere del tempo è indicato efficacemente attraverso il progredire della malattia di John (Titino Carrara) e l’alternarsi delle stagioni. In uno spettacolo dai tempi (forse eccessivamente) dilatati, tale stratagemma serve a compattare la tendenza a tergiversare, benché il meccanismo funzioni meno nel secondo atto che, anche per questo, risulta più debole.
La regia di Cristina Pezzoli lascia molto agio alla prorompente Finocchiaro, ritagliando un certo spazio a Laura Curino, altrimenti soffocata dalla protagonista. Le altre quattro amiche (Ariella Reggio, Carlina Torta, Matilde Facheris e Corinna Lo Castro) sono facilmente riconoscibili grazie all’attribuzione di un colore fisso. Marco Brinzi e Noemi Parroni ricoprono più ruoli, con quest’ultima che dà vita a ben quattro personaggi. È ben gestita la sequenza (anch’essa prolissa) in cui le sei comari si mettono a nudo per scattare le foto, in un gioco un po’ infantile del mostrarsi/non mostrarsi. Da uno spettacolo che tratta dell’emancipazione del corpo ci aspetteremmo meno pudore, ma troviamo soprattutto una serie di acrobazie per coprire il nudo: di fatto viene potenziato dal senso del proibito, che torna in scena per vie parallele e contorte.
Il limite più grande dell’allestimento – nonostante la costruzione apprezzabile – sta nella forza di Angela Finocchiaro: ciò che riempie le sale, ultimamente, non è più (solo) il grande nome. Lo spettatore cerca il “personaggio”, una maschera che già conosce e per cui si sentirà sicuro a investire denaro in un biglietto al fine di assistere a quella strana forma di televisione irripetibile che è il teatro: non potendo registrare e rivedere, o si capisce tutto subito, o non si capisce più. E, allora, il pubblico cerca il già visto, una familiarità declinata mille volte, e mille volte uguale. Come per Silvio Orlando in La scuola e molti altri colleghi anche assai differenti tra loro (Filippo Timi, Massimo Ghini, Emilio Solfrizzi, ma l’elenco potrebbe continuare), Finocchiaro interpreta sé stessa, tanto che, mentre le altre si calano nei panni di personaggi ben definiti, lei sembrerebbe l’unica al naturale, con le “sue” voci e la sua peculiare comicità. La storia (vera) viene forzata per circondare l’interprete riconoscibile e riconosciuta: e, così, ride soprattutto chi è predisposto alla coazione a ripetere, alla comodità del noto contro l’imprevedibilità della possibile sorpresa.