Inizia a far fresco, e la mediacollìna pistoiese assorbe il vento e il frinire degli ultimi grilli: ambiente suggestivo, come si dice in questi casi, benché l’impressione è che non sia esattamente l’ideale per il dispositivo messo a punto da Jonathan Bertolai, atteso da più parti al varco per questa sua prima firma da regista. Difficile penetrar più di tanto le dinamiche, tutt’altro che semplici, d’una compagnia come il Teatro Del Carretto, alle prese con un ricambio generazionale e non privo di personalità notevoli (citiamo Giacomo Vezzani, ma anche Fabio Pappacena, Giacomo Pecchia, Elsa Bossi), figure cresciute e coagulatesi nel pluriennale lavoro sotto la direzione di Maria Grazia Cipriani.
Cresce il volume sonoro, quasi roboante, inizia lo spettacolo: la teoria scenica coincide con un grande contenitore oscuro dominato da uno schermo in alto, una colonna bianca poco a destra del centro, e altri piccoli video disposti uno sull’altro, ai lati. Incipit lugubre, chiaroscurato: ne affiora la silhouette androgina e flessuosa di Ian Gualdani, avvolta da un materiale lanuginoso e diafano, alla stregua di un’opera del bulgaro Christo (peraltro, mancato nel maggio 2020). È Caligola, imperatore ragazzo (invero non troppo: 25 anni nella “sana” antichità non erano considerati come lo sono nell’Italietta d’oggidì), tratteggiato da Albert Camus nelle varie versioni tra 1938 e 1958: testo sfuggente e necessario, da sempre abbacinante riflessione sull’assurdità, a partire dalla storia in parte leggendaria, e chissà quanto artefatta, d’un imperatore folle e inebriato dal potere. Titolo rischioso, e impegnativo, tant’è che l’autore franco-algerino, dopo il debutto in teatro del 1945, deluso, smise di concederne i diritti per la scena, salvo l’eccezione (senza voler denaro!) per un debuttante e allora sconosciuto Carmelo Bene, nel 1959. Si capisce, dunque, come la scelta sia di per sé interessante, pure al di là del sottotitolo Underdog/Upset, sorta di “rivincita dell’improbabile”, concependo il delirante e solitario protagonista alla stregua d’un giovane confuso e sensibile scagliato su un trono ben più grande di lui.
Sia come sia, la prova di Gualdani è mirabile per fisicità, intensità, pure violenza, ottimamente sostenuta, e non v’è sorpresa in tal senso, da un apparato audiovisivo potente quanto allucinato: nel personaggio camusiano tradotto dal Carretto c’è tanto teatro “autentico” dell’ultimo secolo e mezzo, un Ubu nero dalle venature wildiane (l’Erode della bellissima Salomè) ibridato con fulminanti visioni filmiche (The Crow di Brandon Lee, che negli anni Novanta s’impose come riferimento estetico pop; ma anche il Joker di Heath Ledger). Al nero e bianco s’aggiungono via via il vermiglio ematico di certe sequenze video, sino alla delirante scena delle decapitazioni di bambolotti, in un crescendo puntuale e trascinante. Colpisce, in positivo, la percezione d’una vibrante urgenza nelle scelte e nell’applicazione di questo attore atletico e danzante, capace di giocarsi il corpo alla stregua d’un Iggy Pop macilento, nodoso: la parte vocale potrebbe essere l’elemento col maggior margine di miglioramento, ché è ben difficile immaginare un’ulteriore intensificazione fisica, posto che la situazione all’aperto penalizza sia questa sia l’orditissimo (come sempre) piano sonoro.
Il pubblico applaude, e giustamente: peccato per l’esiguo numero, immeritato da uno spettacolo così ben fatto. Non abbiamo niente contro le ambientazioni “alternative”, sia chiaro, a patto che gli organizzatori s’assumano la doverosa briga di portarci spettatori. Auguriamo, altresì, che un allestimento come questo trovi una congrua distribuzione, a partire dai teatri toscani. Il bello c’è, eccome, basta volerlo vedere, e programmare.