Attorno al leggio molti microfoni: con ogni probabilità assolvono soltanto a una funzione scenografica. L’attore entra in scena completamente vestito di bianco e avvicina l’unico realmente funzionante. Alle sue spalle, sulla destra, una consolle, dietro di essa un giovane: sarà lui a creare i suoni (connubio ben riuscito di rumori naturali ed elaborazioni elettroniche) che accompagneranno la lettura. La voce di Fabrizio Gifuni (vera protagonista del reading) è precisa, esatta, le sfumature estremamente controllate. I gesti, brevi e lineari, sono studiati e attenti, anche il volto non lascia mai che sfugga una smorfia o un’espressione incontrollata. L’universo di suoni, parole, gesti e luci che caratterizzano Lo straniero è un luogo da abitare con disagio; spaventoso e allo stesso tempo allettante. Il testo di Albert Camus (1942) risuona limpido nella materializzazione scenica. L’apatia, talvolta sorniona, dell’io narrante si incarna nelle appena percettibili smorfie del volto dell’attore, nei gesti distratti, appena abbozzati.
Alcuni brani musicali intervallano la lettura: in questi momenti Gifuni continua a vivere il personaggio, il volto si fa tetro, come di fronte a una rivelazione assurda e dolorosa, quasi le canzoni celassero un segreto, indecifrabile e abominevole. La penna dello scrittore franco-algerino vive sulla lingua dell’attore, a testimoniare la concretezza inafferrabile di un discorso vecchio e ancora vero, solido, inesorabile.
Gli eventi si susseguono, come nel romanzo, inafferrabili; dalla noia, dall’apatia, si scivola nel terrore. Le vene che pulsano sulla fronte del protagonista in una giornata in cui il sole pare essersi fermato sulle teste dei personaggi. E sembra essere proprio il sole a decidere; una certa luce, un certo luccichio possono decidere un destino; possono addirittura fornire un destino a chi credeva di non averlo.
Il testo si rivela ancora una volta attraverso la voce, attraverso il corpo magro e teso dell’attore, attraverso i suoni e le luci abbaglianti che rimbalzano sull’abito chiaro. La regia di Roberta Lena, per nulla invadente, si occupa principalmente di creare atmosfere che possano sostenere l’equilibrio della scena, la gestione dei suoni e dell’illuminotecnica si rivela riuscita e decisiva.
Mearsault (il protagonista del romanzo) ha molte colpe: quella di non aver pianto o mostrato i propri sentimenti al funerale della madre, quella di vivere una storia sentimentale senza farsi coinvolgere dai sentimenti, quella di lasciarsi condurre dagli eventi (dal destino) senza mai scegliere veramente. Questo suo scivolare attraverso la vita lo condurrà fino all’omicidio, anch’esso compiuto con la stessa apatia di fondo che caratterizza il testo di Camus. Proprio in galera, in attesa di essere giustiziato, Mearsault ritrova la sua dignità, ricomincia a scegliere e comprende la straordinaria importanza della Fine; quando sarà il momento e la piazza sarà piena, il suo compito più importante dovrà essere quello di attirare su di sé la maggior quantità di odio.