Jon Fosse è uno degli autori culto del nostro contemporaneo, un norvegese che racconta, con i suoi dialoghi colmi di silenzi, l’anemica afasia del nostro tempo. Ci siamo così apprestati a vedere la messa in scena di un suo testo, per la regia di Carmelo Alú, e tutto quello che ci aspettavamo di questo algido autore scandinavo ci è comparso dinanzi, nella sua crudezza devastante.
Personaggi privi di nomi propri, quasi archetipi: dal giovane uomo silente, privato della sua chitarra e dell’amato cane, alla madre che interroga, che tenta di organizzare la giornata; dall’amico assente da anni, e che non si ferma neppure per un caffè, alla sorella che arriva da lontano con l’antipaticissimo marito, sino al vicino che non appare, ma agisce e scardina l’attesa di questo paradigmatico nucleo famigliare privo d’argomenti, uccidendo il cane del giovane uomo che, a questo punto, altro non può fare, dopo aver repentinamente vendicato il cinocidio uccidendo il vicino, che prendere con sé il guinzaglio e costituirsi alla giustizia accompagnato dalla madre rassegnata.
La prima regia del giovane Alú, frutto di un progetto curato da Massimiliano Civica per il Teatro Metastasio, è sicuramente rispettosa della lancinante poetica di Fosse, ma forse occorreva uno scatto ulteriore per renderla più incisiva sugli spettatori. Non basta adattare il testo alla nostra lingua per rendere la tragica mancanza di sentimenti in questo nucleo famigliare tanto simile a innumerevoli micro-comunità che popolano il nostro tempo. Ogni testo teatrale, per essere tradotto in scena, necessita di un sapiente lavoro di smontaggio e rimontaggio, che dia spazio alla sorpresa, allo scarto, pena la l’inefficacia del progetto complessivo.
Il giovane uomo, sollecitato dalla madre che gli chiede «Di’… Cosa pensi?», risponde laconicamente «No».
E per un’ora si srotola in scena la spietata inanità di questi personaggi, le loro dinamiche famigliari infarcite di frasi di circostanza dentro questa stanza/universo chiuso che, non a caso, ha, come finestrina per osservare il mondo, un proiettore teatrale che, a ogni apertura delle sue alette-persiane, abbaglierà lo sguardo di chi intende osservare il mondo fuori dal loro claustrofobico loculo.
Una famiglia cui manca aria, respiro: non a caso, il giovane uomo, pur di non dialogare con i parenti, si arma sistematicamente di una sorta di macchina dell’ossigeno posta sul tavolo, attorniato da sedie di sapore vintage, metafora di un possibile dialogo (miseramente mancato) all’interno del nucleo famigliare, unico arredo scenico assieme, in primo piano, alla ciotola del cane colma di cibo. E, invece, finisce per chiudersi ulteriormente dentro di sé. Un giovane uomo che ha smesso di suonare la chitarra, di interagire con gli altri, perché a lui, in definitiva, basta il cane da condurre con il guinzaglio, cosa che non riesce a fare con le persone che gli stanno intorno.
Tutti elementi, però, facilmente prevedibili e, pur essendo tutti gli attori perfettamente a proprio agio nello specifico ruolo (citiamo i giovani interpreti Alessandra Bedini, Caterina Fornaciai, Emanuele Linfatti, Domenico Macrí e Daniele Paoloni), ci saremmo aspettati un ritmo diverso, proprio per non cadere nella ripetizione canonica di quella incomunicabilità che questo indiscusso maestro ha, negli anni, messo al centro dei suoi magistrali scritti di rara asciuttezza.