Al centro del palco, su una panchina verde, una figura umana dorme adagiata. Da poco sono aperte le porte d’ingresso alla sala e i primi spettatori affluiscono lentamente. Qualcuno, con scatto degno d’altre corse, bramoso d’arte e posizioni, sorpassa tutti, compreso chi scrive, guadagnando la prima fila ai piedi del corpo che ci accoglie.
La figura resta immobile tra il vociare, i colpi di tosse, il frusciare dei soprabiti.
È il nero, come quasi sempre.
Così il corpo viene al mondo, entra in scena: parrucca, trucco, giacca e cuffie da disc-jockey. Sul fondo, uno studio radiofonico; ai lati, un’asta microfonica, un albero. Già da subito ogni cosa – è, questa, una sensazione che ci accompagnerà per tutta la performance – appare essere l’ultima cosa, sopravvissuta nei secoli, scampata, portandone i segni, alle catastrofi, proprio come il testo che Latini cala nell’adesso: il Cantico dei Cantici (Shìr hasshirìm, «il più sublime tra i cantici»), il libro più ardente del canone biblico. Il testo che celebra, fuori dalle allegorie in cui l’intelligenza l’ha costretto nei secoli, l’amore carnale degli umani.
È l’ultima stazione radio, l’ultimo speaker, l’ultima trasmissione.
«L’amore dei cretini è mandato dal cielo
Tu raggrinzisci e la nostra passione si consuma
Il mio cuore è una puttana, il tuo corpo è in affitto
Il mio corpo è rotto, il tuo è logoro
Incidi il tuo nome sul mio braccio
Invece di essere stressato, riposo qui incantato
Perché non c’è nient’altro da fare
Ogni me e ogni te»
cantano i Placebo nella cuffia del dj.
Si mette in moto così la macchina di Latini, che già vedemmo «strappare alla polvere» il Pirandello di I giganti della montagna, e che ritroviamo “miglior attore o performer” agli UBU 2017 proprio per questo lavoro. È una macchina del tempo, ovvero del verbo, a far sì che il testo dell’anonimo poeta del IV secolo prima del Cristo, così come ogni opera viva, si riveli per quello che è: contemporaneo.
Era già tutto scritto, quel che adesso viene detto.
Latini non offre una lettura fedele del testo sorgente (di per sé frammentario, squassato, magmatico), ma una rilettura che, attraverso la mise-en-scène, assurge a riscrittura. Attinge a materiali che gli appartengono, tra pop e camp, senza soluzione di continuità: le sonorità elettriche dei Placebo, una Carrà suadente e remixata, Morricone e, soprattutto, i giovani amanti, Noodle e Deborah, di C’era una volta in America:
«Il mio diletto è candido e rosato,
le sue guance sono oro sopraffino,
il suo collo è uno stelo soavissimo
anche se non se lo lava dalla Pasqua passata…
I suoi occhi sono occhi di colomba,
il suo corpo è risplendente avorio
e le sue gambe sono due colonne di marmo…
in calzoni così luridi che stanno in piedi da soli.
Egli è tutto una delizia
ma sarà sempre un pezzente da due soldi,
e perciò non sarà mai il mio diletto.
Che peccato!»
Il lavoro scenico ricrea il testo, ne allarga i confini, sino a lambire i nostri stessi limiti, sino a comprenderci.
Dismesso il sacro, acquietate le letture, dissipate le interpretazioni, quel che resta è uno stare nel movimento del testo che è un continuo rincorrersi e frangersi: il desiderio dell’uomo è il desiderio della donna (Latini, sulla scena, assume e agisce in una riuscitissima forma androgina); le parole dell’amante sono le parole dell’amato (le voci, più che succedersi, si sovrappongono); gli atti dell’uno sono gli atti dell’altro (l’amata è percossa, ma è l’amato a percepirne il dolore); diletto e tormento si danno e si scambiano il passo come una voce e la sua eco.
«Il tuo amore mi stravolge la mente». E di questo stravolgimento – un malanno nell’originale: «Perché sono malata d’amore» – il performer dà conto senza tregua, in un crescendo sonoro e fisico che fa vibrare l’aria e, finalmente, la scenografia stessa.
In quello che ci era apparso e ci appare come l’ultimo luogo, hanno preso fiato le parole antiche. Sono state riscritte, ancora una volta.
E hanno letteralmente travolto tutto, l’uno e l’altro.
«Che peccato!», chiosa infine per un’ultima volta, quasi beffardo, l’amato/amata.
Poi è di nuovo il nero, come quasi sempre.
E i meritati applausi.
Cantico dei Cantici sarà dal 19 al 22 aprile al Teatro Vascello di Roma e dal dal 15 al 20 maggio al Teatro Litta di Milano.
Foto di copertina © Fabio Lovino