Si potrebbe parlare di trilogia, se il giochino finisse qui, ma non siamo così fiduciosi. L’accoppiata Scaparro-Ranieri da anni calca le scene di tutti i teatri italiani con l’indorata pillola del sogno americano, fatta di emigranti italici che approdano all’agognato Nuovo Continente cantando e ballando. Primo della serie fu Viviani Varietà, spettacolo a tutto tondo che, oltre a omaggiare il grande Raffaele, racchiudeva in sé una buona drammaturgia seguita da canzoni napoletane; si passa poi ad Amerika, in cui, oltre alla bella colonna sonora, la prosa ancora sussiste; infine, si “attracca” a Teatro del Porto dove il testo lascia palesemente spazio – quasi esclusivo – alla musica.
Trama a cornice: una compagnia teatrale allestisce, proprio nel Teatro del Porto, un ultimo spettacolo, dedicato alla penisola prima del viaggio verso il Brasile; dopo i timori e le speranze di attori e musici per la nuova tournée americana, prende dunque avvio la performance. Interamente cantato con orchestra dal vivo, una fucina di brani del repertorio partenopeo si sussegue senza sosta (e senza respiro), quasi si stesse assistendo a un autentico concerto napoletano. Le sequenze dedicate alla recitazione sono esigue: qualche gag qua e là, per Ranieri o la sua fidata spalla Ernesto Lama (è Filiberto Esposito detto il simpaticone). L’atteso protagonista balla, canta, sgambetta e addirittura si concede qualche addominale durante brani “dal poco respiro”: niente da eccepire, giacché si è dinanzi a un performer completo.
La strategia scenica del “teatro nel teatro” si manifesta all’apertura del sipario: una serie di quinte ambo i lati costeggiano un’imponente cornice circondata da lampadine, chiaro richiamo al varietà, per raggiungere il fondale dove su tre livelli di praticabili si erge un semplice muro dalle tonalità grige. A firmare la scenografia torna, infatti, Cutuli, dopo Luzzati per Amerika, e il lavoro ci pare interessante, soprattutto per il sodalizio con Maurizio Fabretti, il cui disegno luci regala, oltre a occhi di bue e una selezionata gamma di colori da avanspettacolo, silhouette e ombre sul fondale (rilevante la grata a simboleggiare le sbarre di una prigione).
Non si può parlare di vera e propria recitazione per uno spettacolo che manca completamente di una qualche drammaturgia “solida”: si possono elogiare il bel canto e la mimica propria da artista napoletano, quel fare da scugnizzi e femmene senza fronzoli. Giochi di parola, leitmotiv e misunderstanding sono all’ordine del giorno: dalla ripetuta scenetta in cui Ranieri si lecca – letteralmente – le mani per sistemarsi i capelli, al fraintendibile “aizzi” per “alzi”. Da I‘ te vurria vasà a Bambinella, da ‘O guappo ‘nnammurato a La risata: colonna sonora di tutto punto per assoli, ma anche per coreografie collettive arricchite dagli sgargianti costumi delle tre ballerine. Il pubblico toscano ormai conosce il dialetto napoletano, ma per i meno “eruditi” sull’arco scenico del teatro Animosi è presente uno schermo su cui vengono proiettati i testi in traduzione delle canzoni cantate.
Le tematiche – così attuali – non parrebbero mancare: dalla più banale crisi italica che obbliga artisti a emigrare alla condizione umana di esodi o emarginati della società, che si evincono solo dalle parole delle canzoni. Ci è parso un concerto cui sia stato applicato un secondo livello teatrale, senza però riuscire a fondere compiutamente le parti. Il tempo darà le sue risposte, nel caso ci ritroverete sempre qua a scrivere della saga americana per Scaparro-Ranieri.