In un’epoca in cui il cinema e – in parte – la tv sopravvivono aggrappandosi a sequel, prequel e spin-off di vario tipo, ecco che anche il teatro cerca di far propria questa operazione: in questo caso non per intercettare un pubblico già fedele al personaggio, ma per raccogliere la sfida di immaginare cosa sia rimasto inespresso. Lo troviamo nel nuovo lavoro di Rita Frongia e Claudio Morganti: autrice la prima, regista il secondo, portano in scena Il caso W., sequel di quel Woyzeck di Büchner che si è affermato come uno dei capisaldi del teatro moderno. In questo spettacolo si mette in scena il processo al barbiere che, in preda alla gelosia e alle allucinazioni, ha ucciso la compagna.
Quello del processo è un topos che si fa ricorrente nel Novecento: sebbene questo tema esista nella letteratura di ogni tempo, la ricorrenza nel secolo scorso assume un significato particolare. Dopo il disfacimento di Dio, abbattuto dai colpi della filosofia moderna, la verità si frammenta. La verità giudiziaria diventa un’ingenua utopia, la nozione di giustizia perde ogni fondamento: scomodiamo pure Kafka, di cui lo stesso Morganti, sempre a Prato, realizza una versione scenica con Abbiati (ne parliamo qua). Pensiamo anche a Twelve Angry Men (film del 1957 noto in Italia col titolo La parola ai giurati) o al giudice Wildermuth dell’omonimo racconto di Bachmann (interessantissima autrice austriaca non molto nota di cui incoraggiamo la lettura): testi in cui la responsabilità dell’imputato viene reinterpretata continuamente, fino a confondere tanto i personaggi quanto il lettore. I concetti di innocenza e colpevolezza si compenetrano: il colpevole è forse innocente, l’innocente non è certamente tale (si pensi anche a Die Panne di Dürrenmatt, anche questo oggetto di una traduzione scenica di Valentina Bischi di cui abbiamo scritto).
In questo spettacolo, la verità è inconoscibile anche e soprattutto per l’inadeguatezza di chi è deputato a ricercarla. Il processo si svolge in una scena nuda, con tre tavoli per le parti coinvolte (il giudice con l’assistente, il procuratore e l’avvocato con l’imputato) e un podio per i testimoni. Manca la giuria, o forse no, giacché il pubblico del Fabbricone, disposto sulle gradinate, sembra quasi invitato a rivestire quel ruolo. Nel succedersi di testimoni e personaggi improbabili, il procedimento si svolge in modo disordinato, distratto, macchiettistico. Il processo non è (non vuole essere) quello reale, del 1824, che ispirò lo stesso Büchner, ma uno odierno, con la sua imperante banalità. Tra barzellette, scenate, gaffe e ipocrisie assistiamo a una sorta di talk show mal gestito: ne è emblema lo scontro tra le due parti, con il procuratore e l’avvocato che non disdegnano melodrammatici, ma poi negli intervalli si scambiano opinioni su un ristorante che uno ha consigliato all’altro. I testimoni sono allampanati, manipolabili e inconsapevoli del loro ruolo. Il giudice (Morganti) veste una camicia hawaiana sotto la toga di ordinanza. In scena viene ricreata l’assurdità dell’ordinario, in cui tutti sono troppo occupati a interpretare il loro ruolo: la verità, se anche esistesse e fosse conoscibile, non ha rilevanza.
L’unico personaggio che esce con una qualche dignità è Woyzeck, l’imputato. Il personaggio interpretato da Gianluca Balducci rimane sempre in scena, vibrante ma silenzioso, finché non prende la parola per una dichiarazione spontanea. Le sue parole sono ben più lontane dalla cruda quotidianità degli altri personaggi, tanto da risultare incomprensibili. Benché dettate dalle allucinazioni, la sua è l’unica voce vera, non corrotta dall’ipocrisia: in un collage di esasperata teatralità, il brutale assassino è l’unico personaggio realmente umano.