Il trionfo gutturale d’un napoletano arcaico e arcano avvolge il buio della sala: è una lingua di pasta granita, nulla accessibile, ieratica, quella dei cunti seicenteschi di Giovan Battista Basile. Narra La gatta cenerentola, una delle più antiche e cruente versioni della celebre fiaba poi adottata da Perrault e fratelli Grimm. Quanto basta, per trovarsi in un polveroso e anonimo interno borghese dominato da una scrivania marron, al cospetto delle due ripugnanti sorelle di Cindy, le sconfitte della favola, le residuali, senza speme di riscatto.
Avvizzite e rancorose sopravviventi, hanno innaffiate le vite di cordiale sorbito sottecchi, e quasi sembra d’avvertire la puzza stantia d’una stanza in cui l’esistenza marcisce da sempre, tra risentimenti vomitati, limacciosi alibi, rassegnazione biliare. Una, anzi due vite claustrali e intonacate (tali i costumi indossati), spese e stese all’ombra della trionfante germana dalla bella vita e scintillante, proseguita, dopo l’esito fiabesco, in una carriera da “madrina” sempre in viaggio, a recar sollievo agli ultimi e i derelitti. Ciro Masella è Anny: incattivita, livorosa, ghost writer coatta a gestir la pletorica corrispondenza rosea della vip di famiglia. Ha la spietatezza rugginosa e sfrenata delle donne fallite, tradotta negli squittii acuminati d’una recitazione franta, nera e puntualissima. In carrozzella, Rafael Porras Montero ne è contraltare baritono: Genny, compagna di (non) vita, reclusione ed esclusione, toni curiali e squarci di condiscendenza da mezzo scimunita. Son le sorelle coltelle che furono Crawford e Davis nell’incubo augusto d’una pellicola a rivolger l’uggia in arte e l’arte in delitto. I duetti sono i pezzi meglio: puntuti, svagati, di gran calibro ritmico, strizzano l’occhio a un gustoso ioneschismo, costituendo la base per le sospensioni liriche in cui Masella s’erge dinanzi a un microfono anni Cinquanta a leggere della fatica d’esser brutte, ineluttabilmente brutte, intrappolate in una vita trascorsa in punta di piedi, celandosi alla malvagità inesorabile degli altrui sguardi.
Il malmostoso equilibrio delle due donne viene infranto dall’inatteso arrivo di lei, la vittoriosa: Caterina Fiocchetti, tailleur bianco a fasciarne la graziosa magrezza, sorriso di prammatica, come l’affabile accoglienza che, ben presto, si rivela di pura parata. Ecco, quindi, il regolamento di conti, l’O.K. Corral dei rinfacci, il trionfo amarissimo dei malanimi più deteriori. E la rivelazione: anche Cindy, la fortunata, l’invidiabile, la cristallina, è una disgraziata votata al pianto, al lagrimevole martirio d’una celebrità intrappolata nei sorrisi patinati, nella rappresentanza plastificata. Un’infelicissima Lady D, nel rigurgito angoscioso d’una favola abominevole.
Non basta il pianto, non basta il dolore, per una redenzione che è risibile miraggio da ribaltare in tragedia. Fanfani, nel metter penna a questa riscrittura, abdica a ogni tentazione ricompositiva: fa bene. Già vi sono, nel testo, varie concessioni al patetico che la regia riconduce in una densa, densissima costruzione di riferimenti. Il regalo più pregiato resta, però, oltre alla vivida memoria di miserie famigliari di cui tutti possiamo dar conto, una mirabile prova d’attore e che, sia inteso come grande segno d’apprezzamento, non sorprende chi ormai conosce Masella.
Applausi convintissimi, a maggioranza muliebre, nella canicola serale di Villa Gerini.