Dopo Vita, morte e miracoli e La fine del mondo, Ascanio Celestini ritorna a dar voce ai suoi visionari fools, santi e folli, profeti emarginati e maledetti, in odor di laica santità, portatori di una verità che è il grido di ribellione ai soprusi subiti dagli ultimi, gli stessi cantati da Fabrizio De André. Un barbone africano che dorme nel parcheggio di un supermercato, una vecchia dalla “testa impicciata” con il morbo di Alzheimer, una prostituta italiana, né Bocca di Rosa né Marinella, bensì donna volitiva che ha dovuto fare i conti con una società maschilista: ecco alcuni dei fantasmi evocati nei racconti di un personaggio misterioso, un finto cieco ubriacone, che emana un’aura vagamente cristologica.
Sulla scena, un piccolo siparietto vermiglio, delimitato da un sentiero luminoso di abat-jour, che rappresenta il palcoscenico di questo povero cristo che si rifugia lì dentro, in quel suo teatrino, dove gli è permesso, anzi richiesto, di raccontarsi e raccontare. Siamo in un modesto bar della periferia palazzinara romana. Una fitta trama di storie s’aggroviglia in un unico racconto, nel flusso di coscienza di questo clochard donchisciottesco che ha come spalla un Sancho sdoppiato nella voce off di una bambina-angelo (Alba Rohrwacher) e nel corpo di un fisarmonicista muto (Gianluca Casadei), ma vibrante di malinconiche note da teatro brechtiano, composte appositamente per lo spettacolo.
Celestini recita in un romanesco verace dando schiettamente vita, con un crescendo pure efficace, all’anima santa e maledetta di questi uomini e donne derelitti, emarginati, lontano dagli occhi dei benpensanti, rappresentati idealmente da Laika, cagnetta cresciuta in strada, e quindi più resistente e forte dei consimili d’appartamento, scelta dai russi in occasione della nota missione aereospaziale da cui mai ha più fatto ritorno.
È, questo, uno spettacolo trasognato, vi si respirano echi del grande romanzo di Cervantes: questi eroi di periferia, fagocitati da una realtà in parte frutto della loro immaginazione, in parte frutto di una sofferenza palpabile e più che reale, s’oppongono strenuamente alla rassegnazione e lottano ognuno contro i propri mulini a vento. Lo spettatore sprofonda progressivamente nella narrazione, in una dimensione utopica del viaggio che ricorre in tutto lo spettacolo, fino all’incredibile quanto grottesca impresa di un uomo che solca il mondo a nuoto, partendo da Ostia, pensando che il mare inizi proprio da lì. Nessuno dei popoli che incontra vuole accettare la soggettività del suo punto di vista, finché non arriva al Polo Nord… E , come alla fine di questo lungo viaggio natatorio, anche alla fine dello spettacolo, il miracolo avviene. Di notte, mentre la polizia sgombera il picchetto di operai che avevano trincerato la fabbrica per protesta, un cieco, una vecchia e una donna dalla testa impicciata, esercito improbabile quanto sgangherato, scendono in strada per difendere un barbone nero dalle percosse. Ascanio Celestini non è certo il primo artista a dar voce agli “ultimi”, ma è coerente con il suo linguaggio teatrale d’impegno civile, con il suo modo d’intendere un teatro che fiorisce dal racconto, questa volta senza un c’era una volta fiabesco, ma denso di scene di una sommersa e triste realtà urbana.