Una zattera disegnata per terra. Il pubblico entra, qualcuno va a sedersi sulle sedie poste intorno a essa, altri sulle gradinate della platea. Riuniti, insieme per sfogliare un album di famiglia.
César Brie entra, attore naufrago. Il buio della sala si anima alla luce fioca della lanterna che porta con sé. Lentamente libera le vele e chiama a sé il suo equipaggio di fantasmi, di vestiti inanimati, di memorie di bambino.
Conosciamo la sua famiglia, poco alla volta: la madre, un vestito azzurro seduto nell’angolo in alto a sinistra; il padre, scarpe vuote, completo grigio in basso a destra; la nonna, seta rossa punteggiata di fiori accomodata in basso a sinistra. Nell’ultimo angolo, in alto a destra, una figura di cartapesta ci dà le spalle.
Ascoltiamo le parole di un vecchio bambino che ricompone la propria vita, i vestiti parlano si animano, riempiendosi di corpi invisibili. Si stringono, si abbandonano, si macchiano della malattia che ha portato alla morte del padre. In mezzo alla zattera, appesi a un filo, sospesi su un sentiero di libri gli abiti suggeriscono immagini di una giovinezza contesa tra fratelli, logorata dalla depressione della madre, dedita all’affetto per la nonna.
Il pupazzo di cartapesta si anima. Un bambino corpo dell’ingenuità pura ancora non sporcata dall’ipocrisia del quieto vivere quotidiano. Ricorda silenziosamente all’attore com’era e quali sono le sue origini, la sua essenza più profonda.
Un richiamo a se stessi troppo doloroso, un ricordare assillante che il protagonista non riesce a ignorare. Solo con la morte del bambino, giustificata da mille scuse, l’adulto può cercare di continuare a vivere.
Il presente si mostra agli occhi di chi guarda come una lunga sfilata di caricature. Ipocrisia e opportunismo si disciolgono nell’aria. Dal critico teatrale all’uomo politico, allo spettatore per caso. L’attore si mette in gioco, mette in gioco il proprio lavoro, prende in giro se stesso, costretto ma non sottomesso all’abiura da una folla di invisibili presenze che sembrano stringerglisi contro.
L’adulto è solo maschera, solo apparenza. Ciò che era ciò che è.
Il bambino viene liberato, torna a dare sostanza, calore e voce, al corpo vuoto del vecchio, il passato viene rievocato e con esso i primi baci, i primi amori.
Lentamente, tutto torna al proprio posto. I vestiti si accomodano, precisi, sulle sedie. La storia giocata sul filo della verosimiglianza si stempera nel buio della sala, sotto gli occhi del bambino che guarda, seduto sulle ginocchia di uno spettatore.
Un viaggio attraverso l’amore, la famiglia, la morte, l’assenza, tra rimorsi e rimpianti ingialliti dal tempo. La messa in scena di César Brie si caratterizza per la sua natura fortemente evocativa, kantoriana si direbbe. Lo spettacolo procede per immagini e suggestioni, lo scorrere del tempo e della vita si traduce in fantasmi che gonfiano le stoffe dei vestiti e richiamano disperatamente un passato che riesce a divenire per un attimo fisico e tangibile.
A stemperare il tono nostalgico è il presente, richiamato con troppa foga dal grottesco ostentato. Una parentesi intrisa di troppo rancore, che taglia la memoria e inframezza la messinscena quasi interrompendo bruscamente l’empatia dello spettatore.