Li avevamo lasciati in immersione labronico-marina, qualche anno fa, con il bel Testa di rame: ritroviamo, adesso, Ilaria Di Luca e Andrea Gambuzza (coppia d’arte della compagnia Orto degli ananassi) in una sorta di squinternato testo a due voci, giocato sul filo, rischiosissimo, della riflessione sociale, nel trattare un argomento non facile col sovrapprezzo d’un taglio che necessita di cervello, cuore e coraggio. In tempi di pur giusta e martellante sensibilizzazione sui diritti femminili nei rapporti col sesso forte, un testo sulla separazione coniugale e l’affidamento dei figli dal punto di vista maschile rappresenta, di per sé, una gran bella sfida che Gambuzza (coadiuvato drammaturgicamente da Francesca Detti) dimostra di gestire bene, certo alla sua maniera, dosando riso e pianto, dramma e comicità.
L’intera scena è occupata da una serie di reticolati metallici, a sezionare lo spazio tra più ambienti potenziali: lo sguardo è come sospeso in una duplice dimensione, metafisica da un lato (tutto esposto all’occhio dello spettatore), di precaria e umanissima essenzialità (ci vengono in mente le ironie su Ikea di Fight Club) dall’altro.
Lui è Maurizio, operaio, autentico spiantato in chiave sia professionale sia emotiva: matrimonio sfarinato alle spalle, l’unica costante, l’unico approdo amato/disperato è il figlio Mattia, sette anni. Si barcamena, il tipo, incapace a gestire sé e gli altri, figuriamoci i rapporti essenziali; eppure è caparbio, umano nelle sue fragilità, quell’incapacità pneumatica d’organizzazione (i rimbalzi telefonici tra gli amici del pallone e gli occasionali committenti di lavoretti al nero sono piccole perle d’inettitudine). Gambuzza vi si destreggia alternando dolcezza e morso comico, senza mai perdere la pulsazione ritmica del testo.
Sull’altro fronte, troviamo non la moglie, liquidata dalle prevedibili stilettate d’una frustrazione grumosa, bensì Laura, compìta assistente sociale chiamata a dirimere la questione filiale. Di Luca, non lo scopriamo adesso, è magistrale nella sanguigna resa d’un personaggio assai remoto dal cliché: volitiva, quasi ridicola nel suo volersi “intera”, eppure fragilissima, sempre lì lì per sbriciolarsi, complice un evento passato che le grava sull’anima.
E una delle cifre più apprezzabili dello spettacolo sta proprio nel porre a confronto due poveracci, mostrando anche il volto sin troppo umano di chi è chiamato a svolgere funzioni “istituzionali”, come il decidere della vita non di una, bensì di tre e più persone. Ne esce una sfida serrata e (im)probabile che sembra unire spunti pinteriani e un’aderenza dei caratteri che ricorda certe sequenze dei film di Kaurismaki (Aki, quello di L’uomo senza passato).
La regia è pulita: condotta sul filo dell’evocazione scenografica, senza intellettualismi gratuiti (gli a parte a vista non lo sono) né ingenuità naturalistiche, s’appoggia in gran parte sulla fluida recitazione, e la capacità nel variar di registro, senza appesantire il dettato, complice un intreccio che mira al drammatico per poi sciogliersi in un sorriso finale.
Volendo, ma la chiosa è personalissima, eccepiremmo sulla questione umana, convinti come siamo che il problema della famiglia non sia l’inceppo d’un meccanismo altrove funzionante, bensì la famiglia in sé. Difficile, però, innervare d’una simile base ideologica (tra sbotti di Genet e prospettive puericolturali da repubbliche platoniche) una recensione a uno spettacolo che, quantunque e comunque, ci pare meritare credito e plauso.