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Nel percorso artistico di molti attori italiani, specie se grandi, non è raro paventarsi il confronto con la poesia dantesca. Il canto, anzi, di quel primo, non per cronologia bensì titanica dimensione, dei nostri poeti: padre carsico, a lungo, se non proprio rimosso, eclissato dall’astro petrarchesco, tornato poi a innervar copiosamente e i percorsi della critica e gli stessi versi degli indiretti discendenti. Senza scomodar recenti scomparse, pensiamo a Vittorio Sermonti, dicitore e didatta ancor più che attore, a Vittorio Gassman, al Carmelo Bene dalla Torre degli Asinelli, arrivando persino a Roberto Benigni. Dette considerazioni ci accompagnano presso gli Arsenali Repubblicani, augusto complesso ristrutturato, per assistere alla lectura proposta da Chiara Guidi, storica fondatrice della Societas Raffaello Sanzio, da tempo impegnata in un’originale studio dei rapporti tra voce, suono e senso, in continuità con gli ultimi approdi più o meno latamente musicali della celebre compagnia romagnola.
Dante posticipato, titolo in sfida alle ironie per una commemorazione tributata in ritardo, rappresenta l’alveo per tre appuntamenti a varia densità teatrale, di cui la performance di Guidi costituisce il debutto. L’attrice leggerà, scortata dal violoncello di Francesco Guerri, alcuni canti dall’Inferno: il III, il XIII, il XXXIII e l’ultimo, il XXXIV. Scelte da indagare: gli ignavi, nell’Antinferno perché sgraditi persino al diavolo (aggiunta rispetto alle letture presentate in precedenza da questo duo), la storia di Pier delle Vigne, l’immancabile (a Pisa) Ugolino, infine, la ghiaccia rampicata sul corpo di Lucifero a riveder le stelle.
Abito rosso, la minuta attrice prende posto nel corridoio centrale d’uno spazio che accoglie più spettatori del preventivato: città curiosa, Pisa, abituata all’ascolto, e l’arrivo della Societas, pur in forma dimidiata, s’erge a rango d’evento. Piegata in avanti, Guidi scorge il poema; poco distante Guerri, “difeso” dalla sinuosità del suo strumento.
Dante si fa suono: lettura sottile, rarefatta, complice la dislocazione degli auditori. L’impressione è d’amplificazione poco adeguata all’afflusso: ben percepiamo i guizzi d’arco, liquidi e fluviali; meno le parole, in una danza di nascondimenti che sembra eccedere le pur percepibili intenzioni artistiche.
Nondimeno, la memoria del testo giunge in soccorso (bei tempi, quando alle medie si mandavano a mente le poesie): Guidi ci pare, forse nello smarcarsi dai manierismi sedimentati e quindi inerti, voler(si) sottrarre (al)l’endecasillabo, diluito in una dinamica di volumi che predilige il suono al ritmo. L’emissione rugosa, calcata nelle sequenze narrative, si fa acuta nella voce dei personaggi: così per Virgilio, per colui che tenne ambo le chiavi allo Svevo, un Pier delle Vigne aspro e rabbioso nel rinfacciar le lacrime di sangue del proprio ramo spezzato.
La lettura prosegue, remota, altrove. Convince il contributo musicale, non commento, ma asse portante, discorso anch’esso, col limite d’una certa ridondanza coloristica cui gioverebbe maggior apertura di soluzioni, anche in virtù dell’evidente eclettismo di Guerri.
Si resta con qualche immagine sonora della performance, ma pure un’impressione irrisolta, come d’una mancata messa a fuoco, un contatto fisico, più tattile che intellettuale, certo tra gli scopi in nuce, ma che non pare aver trovata l’efficace giustezza. Nondimeno, copioso è il plauso d’un pubblico ormai aduso alla dimensione d’evento, forma trionfante del nostro tempo, a prescindere dal suo contenuto.